Cambiamento climatico, guerre, pandemie. I presupposti della fine del mondo raccontata da Tides di Tim Fehlbaum (Berlinale Special) sono del tutto «sintonizzati» sul tempo attuale, al punto da sconfinare nella didascalia.

Ma siamo già ben oltre l’apocalisse: gli esseri umani (o meglio le élite che hanno potuto permettersi di fuggire) da due generazioni vivono su un altro pianeta – Kepler – e con la missione Ulisse II cercano di sondare se la terra è di nuovo abitabile – anche perché su Kepler le persone hanno perso la loro fertilità e il destino è ancora una volta l’estinzione. Nelle prime sequenze gli astronauti Louise Blake (Nora Arnezeder) e il suo collega Tucker (Sope Dirisu) si schiantano sulla terra – forse condannati a fallire come la prima missione Ulisse, capitanata dal padre di Blake.

SULLO SCHERMO Fehlbaum traduce la sua science fiction postapocalittica, ecologista e anticolonialista attraverso un immaginario ereditato da decine di film, da Interstellar a I figli degli uomini, Mad Max e soprattutto Waterworld, i cui «atolli» messi insieme con le rovine del mondo di prima si stagliano in un paesaggio invaso da acqua, pioggia e nebbia. E popolato dai pochi eredi dell’umanità abbandonata a morire: gli abitanti di Kepler sono dunque Ulisse che fa ritorno a casa o, come si soprannomina uno di loro, Cristoforo Colombo alla conquista di un mondo nuovo e antico allo stesso tempo, sul cui sangue costruire un impero? Una riflessione sul nostro rapporto con il mondo che abitiamo irrigidita dalla scelta di renderla il più evidente possibile.