Che funzione può rivestire un museo per un piccolo paese che conta a malapena 1600 abitanti? La risposta che il marketing culturale suggerisce è scontata e un po’ da pensiero unico: un museo in un contesto così serve come calamita turistica, per rivitalizzare con l’indotto l’economia di un paese a rischio di marginalità. Siamo in Canton Ticino, appena al di là del confine italiano (quindi i rischi di marginalità sono molto relativi, trattandosi di Svizzera…). Il paese in questione è Rancate e il museo è la Pinacoteca Giovanni Züst, aperta da oltre cinquant’anni per accogliere l’importante raccolta donata dall’omonimo imprenditore elvetico. La pinacoteca è ospitata in un edificio che un tempo faceva da canonica alla vicina parrocchiale e che tra 1965 e 1967 è stato completamente rivisitato con un intervento architettonico di grande equilibrio e rispetto firmato da Tita Carloni, altra eccellenza ticinese, oltre che maestro di un’archistar locale come Mario Botta. Alla Züst da un po’ di anni a questa parte si sono adoperati per dare un altro dito di risposta alla domanda di cui sopra: la programmazione ha sempre tenuto presente un’articolazione stringente con la storia culturale di quel lembo di territorio lombardo extrafrontiera, cercando poi di declinare con grande qualità le proposte espositive. In sostanza la Züst si è venuta affermando come un laboratorio coerente e insieme controcorrente, dove viene ogni volta approfondita la funzione del museo rispetto al contesto che lo accoglie. Il successo, anche di pubblico, dice che è una scelta giusta.
L’ultima mostra proposta è esplicita sin nel titolo: Il Rinascimento nelle terre ticinesi 2 Dal territorio al museo (fino al 17 febbraio; catalogo Edizioni Casagrande). Il numero «2» rimanda alla rassegna «numero 1» che attorno allo stesso periodo storico era stata organizzata nel 2010, avendo però come protagonisti e come traino due assi che erano stati attivi in Ticino, Bramantino e Bernardino Luini. Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa (che avevano curato anche il primo appuntamento, allora insieme a Marco Tanzi) questa volta hanno messo a tema la stessa stagione artistica, assumendo però un’altra prospettiva: seguire la diaspora di un patrimonio che aveva segnato la fisionomia di un territorio, per capire quale ruolo possa avere un museo nel riconnettere questi frammenti di una storia perduta.
Come Agosti e Stoppa precisano nell’introduzione non si tratta di «un secondo capitolo pensato già nella progettazione del primo». Però ammettono che una lampadina si era sin da allora accesa: infatti in chiusura del cantiere della prima mostra era stato ritrovato un documento del 1526 relativo alla realizzazione di un polittico di Francesco De Tatti per la comunità di Rancate. Polittico – per venire appunto al tema – di cui non c’era più traccia in quanto era stato disperso. Nel 2017, però, una tavoletta che proveniva da quel polittico era riapparsa sul mercato svizzero (rintracciata e individuata da Stefano L’Occaso). Una scintilla minima, ma sufficiente a far riaccendere i motori: la direttrice della Züst, Mariangela Agliati, si è subito attivata; con tempestività il Cantone ha provveduto all’acquisto di quel frammento di patrimonio, entrato nelle raccolte della Züst (numero di inventario PZ 525).
«Francesco De Tatti! Chi era costui?» si chiede con molta sincerità il primo dei pannelli esplicativi che accompagnano il percorso (tutti costruiti intelligentemente a partire da domande che ognuno si potrebbe fare). Si sa poco di lui, se non che era di origini varesine e che aveva lavorato assiduamente nel Ticino, come dimostra il disegno firmato che ne ha svelato l’identità: un foglio proveniente dalle Gallerie dell’Accademia dove tra due figure di santi si spalanca un paesaggio che è stato riconosciuto con sicurezza come la prima veduta di Bellinzona. E proprio a Bellinzona Gianni Romano aveva indicato De Tatti come l’autore di una serie di affreschi nella chiesa francescana di Santa Maria delle Grazie.
La predella ritrovata è un oggetto che comunica una doppia energia affettiva: da una parte quella inevitabilmente generata dall’imprevisto ritorno «a casa»; dall’altra quella assicurata dal calore narrativo di cui De Tatti si mostra capace, con le figure, a volte fuori scala, che popolano uno spazio compresso, sotto un soffitto incombente, come di una casa contadina. I falsi testimoni si sbracciano per convincere il sommo sacerdote rispetto alle accuse lanciate contro Stefano, il quale invece se ne sta al centro, calmo, figura piena di candore. Come giustamente rilevano i curatori, De Tatti mostra di aver visto e metabolizzato l’opera di Martino Spanzotti, «genio misconosciuto della pittura italiana del Quattrocento»: lo stesso Spanzotti è presente in mostra con la meravigliosa predella del polittico del Duomo di Torino, dove le scene di notturno «in blu» con la Preghiera nell’Orto e la Cattura sono qualcosa di indimenticabile.
Questo è l’unico deragliamento rispetto a un percorso che invece persegue con chiarezza il suo scopo: tentare di ricomporre il tessuto violato del territorio. Sono solo frammenti nella desertificazione causata prima dalla soppressione delle chiese e dei monasteri, poi dalla mancanza di una legge di tutela e infine dal progetto di concentrare una grande quantità di opere raccolte nei cantoni nel Museo nazionale svizzero di Zurigo, inaugurato nel 1890 (diversi prestiti vengono infatti da lì). «Perché queste opere non sono più nel luogo a cui erano destinate?», è non a caso la domanda posta in testa al pannello che presenta la sala conclusiva della mostra. In quella sala sono tornati a sentire l’aria di casa la pala di Bernardino Luini e il polittico di Callisto Piazza, per la prima volta ricomposto dopo la dispersione. La prima è finita in collezione privata in Inghilterra; il secondo è diviso tra diverse raccolte italiane ed è stato privato della cornice disegnata da Cristoforo Lombardi. Tutt’e due provenivano dalla chiesa di Santa Maria degli Angeli di Lugano, quella resa famosa dal tramezzo affrescato da Luini. «Come sarebbe stata diversa quella chiesa se ancora quelle opere fossero al loro posto», si legge più avanti sullo stesso pannello.
Per fortuna a mitigare la possibile malinconia c’è quel senso di familiarità che l’allestimento di Mario Botta ha diffuso tra gli ambienti del museo. Le strutture che reggono le opere, per lo più piccole, sono strutture in legno di cedro lasciato grezzo, che così disperde generosamente il suo profumo dolce tra le stanze, dipinte di nero come vecchie lavagne. Quasi un invito a scrivere altre storie come queste.