Il Teatro alla Scala conclude la stagione con un’opera commissionata  insieme alla Staatsoper Unter der Linden di Berlino a Salvatore Sciarrino, andata in scena in prima mondiale lo scorso 14 novembre: Ti vedo, ti sento, mi perdo. Un’opera nuova, dunque, come è stato in uso nella tradizione italiana e non solo per quasi quattro secoli, fintanto che il teatro lirico è stato un’industria viva e florida, veicolo, come scrive Lorenzo Bianconi, di uno spettacolo d’affezione di natura elitaria e voluttuaria, proiezione nell’immaginario collettivo (socialmente trasversale) di sentimenti, comportamenti e ideali (anche politici) esemplari e allo stesso tempo preclusi all’azione, quindi potente catalizzatore ideologico, ancorché sublimatorio.

Al presente tutto questo, sia detto con buona pace di melomani, compositori, critici, sovrintendenti ecc., non esiste più: quella lirica è diventata un’industria di cartellone più che di produzione, imperniata attorno alla riproduzione di un passato remoto o recente glorioso, fatto di titoli ormai globalmente canonizzati, di sparute riscoperte e di qualche rarissima nuova commissione. Il fatto è che queste nuove commissioni, compresa Ti vedo, ti sento, mi perdo, nella maggior parte dei casi fanno leva più o meno sottilmente sull’inevitabile sfumatura di necrofilia che, secondo Nietzsche, caratterizza tutte le celebrazioni e le museificazioni del passato.

Ecco allora che Sciarrino, autore sia della partitura che del libretto, si rivolge al teatro per mettere in scena il teatro (o meglio un compositore: Alessandro Stradella), peraltro percorrendo una strada vecchia come il teatro stesso e creando un cortocircuito che certo aggiunge un tassello di riflessione dall’interno sull’opera, ma tende a respingere, insieme allo slancio utopistico di rifondare il genere tentando di trovare la lingua del presente, un pubblico non musicologicamente attrezzato (parte del quale ha lasciato il teatro tra primo e secondo atto).

Il risultato è un’operazione intellettual(istica)mente sofisticatissima che si muove per gran parte del tempo in maniera (certo volutamente) meccanica e anempatica, sciogliendosi e animandosi solo nei momenti di citazione e/o di libera rivisitazione della musica del passato, della quale vengono sottilmente esplicitate le anticipazioni involontarie della musica successiva (Stradella sembra prefigurare il romanticismo). Insomma la macchina drammaturgica, pur sorretta amabilmente dalla messa in scena di Jürgen Flimm e Gudrun Hartmann, ci fa pensare a un postmodernismo freddo, chiuso in se stesso, uguale a se stesso, che non viene animato neanche dalla grazia vocale di Laura Aikin, peraltro libera di esprimersi nei pezzi citati/rivisitati e massacrata nei miagolii sadici previsti per il resto della performance. Può anche darsi che il senso dell’operazione sia quello di sezionare chirurgicamente musica e voce, scomponendone le parti e letteralmente squartando la possibilità stessa che esse vengano usate in maniera semantica e drammaturgica. Certo è che ben presto il corpo vivisezionato risulta senza vita e l’operazione nel suo complesso si mostra necrofilamente fine a se stessa. Domenica 26 novembre ultima replica.