Nella tarda opera narrativa di Thomas Mann, la critica ha spesso notato la tendenza a lavorare di ricamo più che di invenzione, ad attraversare materiali letterari o culturali già esistenti, arricchendoli, amplificandoli e manipolandoli con la perizia del consumato bricoleur che innesta, sulla nuda articolazione delle storie, materiali eterogenei per origine, intenzione e contenuto. La quantità delle preformazioni letterarie che Mann scomoda ha, per lungo tempo, esaurito l’impegno degli studiosi, intenti a tracciare palmo a palmo i percorsi dalle fonti al testo, ad allargare le fittissime maglie citazionali nella ricerca dei punti d’origine della sua arte combinatoria. Superata la fase ‘positivistica’ e le ramificate cartografie testuali da essa prodotte, la critica è tornata, fortunatamente, a indagare le strutture narrative, le implicazioni filosofiche, le parentele tematiche e formali che accomunano i romanzi dell’ultima fase di Mann, insieme al particolare sistema semiotico che vi si genera.

Di questo filone, che valuta dunque nell’autonomia della loro forma artistica i romanzi tardi di Thomas Mann evitando di restituirli come conglomerati enciclopedici di citazioni e raffinatissimi pastiche, viene a far parte a buon diritto l’ultimo Meridiano Mondadori dei Romanzi (vol. II, pp. 1500, € 76,00). Curato da Luca Crescenzi con traduzioni di Elena Broseghini e Margherita Carbonaro, il volume è l’ultima pietra dell’edizione commentata dei romanzi di Thomas Mann e riunisce Charlotte a Weimar, L’eletto e Le confessioni dell’impostore Felix Krull.
Goethe, ormai una entelechia
L’intenzione manifesta è indicare l’abbagliante modernità dei tre romanzi, lontani in questo senso da quella Fabulierlust sempre traboccante ma un po’ imbolsita che spesso i critici intravedono nel tardo Mann: lo rivelano anche le tre splendide introduzioni a firma di Aldo Venturelli, Elisabeth Galvan e Werner Frizen, cui risponde un corposo e accuratissimo apparato di note a cura di Luca Crescenzi. La modernità è, del resto, la linea che attraversa tutte le pagine dei testi manniani e l’istanza che meglio risalta dal corredo ermeneutico del volume.

Charlotte a Weimar, la cui stesura interrompe per un paio d’anni il lavoro all’imponente edificio narrativo di Giuseppe e i suoi fratelli, è forse il più esplicito riverbero dell’affinità elettiva con Goethe, consapevolmente coltivata. Nell’attentissima costruzione del sé letterario, Mann insegue il mito del Grande Scrittore, di cui Goethe è emanazione prima, e l’imitatio goethiana culmina in questo romanzo dove, sullo sfondo di un’Europa che si affaccia al secondo conflitto, è ricostruita l’atmosfera, rarefatta e cristallina, di Weimar nel 1816.

Qui la protagonista, Charlotte Buff-Kestner, che Goethe aveva amato in gioventù facendone il modello di Lotte nel Werther, ritrova, dopo quarantaquattro anni, il plenipotenziario del piccolo ducato turingio. L’incontro, preparato lungo sei capitoli, avviene alla fine del romanzo ed è una delusione. Goethe non è più il giovane, irruento e appassionato che aveva infiammato l’Europa con il suo romanzo epistolare: è diventato un bonzo intransitabile, l’essenza, un po’ sclerotizzata, della propria statura morale e letteraria o – meglio ancora, per usare una parola cara a Mann e allo stesso Goethe – un’entelechia.

Eppure l’intarsio delle fonti, il cosmo di citazioni, più o meno vere, di cui il romanzo si intesse e la rete di incontri di Charlotte, a preparare in modo quasi indiziario quello con Goethe, gravitano intorno ad alcuni nuclei fondamentali della scrittura goethiana, mostrando – qui il tratto moderno della narrazione di Mann – una spiccata componente metaletteraria.

Il problematico rapporto tra arte e vita, che quasi sempre comporta rinunce o, come minimo, sublimazioni, il modo di esistere accanto agli altri, il complesso di seduzione, erotismo e colpa, la nevrosi da abbandono, l’osservazione ‘terza’, improduttiva e parassitaria del rapporto di coppia e il suo travaso nel momento, insieme divino e istantaneo, della creazione artistica, la capacità dell’arte di cogliere l’eterno nel divenire delle forme sono i gangli della poetica di Goethe fin dalla produzione giovanile, allora in continuo, nervoso fermento e a questa altezza cristallizzata nell’integralità psico-fisica e ‘antica’ del Goethe maturo, già imbalsamato nel mito della sua serenità olimpica, e nella disciplina assoluta dello stile che governa le lacerazioni del ‘moderno’.

In Charlotte a Weimar, questi fili si annodano in controluce alle conversazioni della vedova Kestner e soprattutto l’ultimo dialogo-sogno della donna con Goethe, una pura e bellissima invenzione di Mann nel capitolo finale del romanzo, è il suggello della poetica goethiana. Ma la componente autoriflessiva di questo testo, presente in sordina lungo tutte le conversazioni di Charlotte, intercetta i nodi principali del discorso di Mann: il rapporto tra arte e vita, o tra spirito e natura, la tesa dialettica tra costruzione e dissoluzione, la seduzione estetica e il suo rapporto con l’ombra lunga del nichilismo, la precedenza riconosciuta all’opera e al suo compimento, disegnando precise simmetrie letterarie, da Tonio Kröger al Faustus.

Dove l’ermetico trionfa
Anche le pagine dell’Eletto, riscrittura della vicenda medievale di Gregorio, prima incestuoso poi papa, cui Mann giunge attraverso i Gesta Romanorum, l’antico francese Vie de saint Grégoire e il suo apografo medio alto-tedesco Gregorius di Hartmann von Aue, portano testimonianza di quella modernità. E questa tarsia citazionale sarebbe poco più che una concessione al medievalismo di maniera se la rappresentazione, fin dall’inizio, non fosse esplicitamente dichiarata come fictio, se non ne venissero messe continuamente in luce la testualità, il carattere di artefatto, la rete di relazioni che questa rifrazione medievale del mito di Edipo intrattiene con altri testi, da Totem e tabù di Freud ai saggi di Kerényi passando per il Matriarcato di Bachofen. La prevalenza della componente linguistica nell’Eletto è presente già in apertura, nel trionfo romano di Gregorio: mentre in un tripudio di folla il protagonista entra in città per salire al soglio dopo diciassette anni di penitenza, tutte le campane delle chiese romane si mettono a suonare. Non è mano d’uomo a muoverle, ma lo «spirito del racconto», che aereo, incorporeo e onnipresente, senza legami con lo spazio e il tempo, dà luogo a una extraterritorialità linguistica, dove la testura alloglotta e polifonica di questo Legendenromänchen riproduce, secondo l’intento di chi narra, un’unità prebabelica, l’integrale convergenza del molteplice nell’uno, con accenti che richiamano da vicino il Benjamin del Compito del traduttore.
Chiude il volume il Krull, nato su un’idea di novella ripresa a venticinque anni dal concepimento, e rimasto comunque senza finale. Trionfo dell’ermetico e di quella mediazione tra domìni opposti che Mann, almeno fin dal Giuseppe, persegue sulle orme dello Hermes ‘briccone divino’ e nume tutelare della scrittura, il Krull è, come le due che lo precedono e forse più ancora, un’opera interamente parodistica. Ladro, amante e a sua volta briccone, Felix è la più giocosa epifania ermetica, la più scoperta rappresentazione di un’arte che, di nuovo dentro un rosario di citazioni scoperte o sottese, si celebra come festa della narrazione, ‘grande gioco’ con le storie dell’umanità, macchina interdiscorsiva che permette all’uomo e alla cultura di rigenerarsi sempre e di nuovo, di rifondare l’umanesimo e lo spirito dell’illuminismo per le vie dell’ironia.