«La letteratura, il sogno, l’opera non sono essi stessi avventure?». Questo l’interrogativo con cui si apre il Resoconto parigino di Thomas Mann, datato 1926 e oggi ripresentato in italiano per la prima volta in una nuova traduzione di Marco Federici Solari (L’Orma editore, Roma, pp. 136, € 16,00) dopo l’antica versione del 1957 di Liliana Scalero. Nel suo non insolito ruolo di ambasciatore culturale tra nazioni e popoli costantemente preda di equivoci nazionalisti e che stentano a comprendersi, Thomas Mann si racconta mentre assolve al proprio compito con quella costanza e quell’attenzione tipica del «prussiano», aperto a un ascolto non pregiudiziale dell’interlocutore: ecco il «segreto» di questo rendere conto, di questo preciso annotare e riportare, di questo riscontrare.

Né casuale né causale
Mann è un maestro in tante e diverse tipologie di scrittura, ma raggiunge vertici notevoli proprio nel resoconto, nell’informare, in primo luogo se stesso, e subito dopo il potenziale lettore (chiunque esso sia) di quanto càpita al suo corpo e alla sua psiche, e di come quel capitargli sia al contempo né meramente casuale né completamente privo di casualità. Questa è l’avventura, sembra dirci Mann, condivisa dal sogno e dalla letteratura nell’opera-vita, e non per desiderio ma perché se ne ritrovano forzate. Dell’avventuroso viaggio verso una Parigi inaspettata, e inaspettatamente accogliente, fa parte anche l’altrettanto inatteso ricongiungimento a Mainz di Mann con la sua compagna, la Gefährtin, che condivide con lui il viaggio nella e della vita e non era invece altrettanto spesso in viaggio con il marito.

Mann ricompone nelle poche frasi di un resoconto storico-artistico la città di Magonza e i suoi dintorni, ricostruendo il teatro di quel dissidio tra Francesi e Tedeschi che ha accompagnato i secoli nella consapevolezza di come ogni terra di confine racchiuda un qualche significato simbolico misterioso, destinato a rivelarsi a corrente alternata nel tempo degli uomini. Mann ne avverte la spia anche in un dettaglio linguistico, apparentemente neutro: ancora a Magonza, lui e la moglie vengono interpellati in tedesco mentre già al mattino dopo sono diventati «M’sieur et dame!». Linguaggio e tempo vengono riuniti nell’ordinarietà dei vissuti e nella scrittura, che li rende inseparabili da una sorta di forza mitica, destinata tuttavia a tornare nuovamente alla domesticità del giorno dopo giorno.

Commosso dal telefono
Nella sua stanza d’albergo parigina, Mann osserva i dettagli, la mancanza di un comò, subito fatta oggetto di rimostranze e compensata dall’arrivo di un nuovo mobile, e la presenza di un telefono «l’apparecchio più commovente che io abbia mai visto». Annota ancora: «Le sue manifestazioni vitali toccavano l’anima, non si era mai rapidi abbastanza per andare a soccorrerlo e se lo si trascurava per un istante ci si ritrovava a lanciargli da lontano, senza neppure accorgersene, promesse e parole di consolazione. Possedeva un piccolo occhio luminoso che lampeggiava e ammiccava tutto eccitato…». Ma non sono certo gli aneddoti, per quanto deliziosamente inanellati dalla penna del suo autore, a restituire l’importanza di questo Resoconto. All’ambasciatore della cultura tedesca in Francia, nel 1926, si chiede di cancellare l’idea che la Germania, e la sua cultura nei secoli, siano o possano diventare ragione di pericolo militare per la Francia.

Una missione e altri destini
Nell’orizzonte politico dell’epoca, il compito è delicatissimo, e Mann cerca di assolverlo come meglio può, ovvero mostrando che la terra di Goethe e dei romantici non è culturalmente attrezzata a una rinnovata belligeranza. Sappiamo come le cose sarebbero andate di lì a meno di un decennio, ma questo nulla toglie alla nostra possibilità di apprezzare la portata dell’impegno che Mann infonde ai suoi interventi pubblici e privati in quei giorni parigini. Tra un colloquio con i traduttori di alcuni suoi libri e un incontro con intellettuali e politici francesi e tedeschi (tra gli altri conoscerà il celebre africanista Leo Frobenius), Mann dispensa ragionevolezza a piene mani, respingendo sia l’impressione che la cultura tedesca possa contenere qualche «pericolo» estendibile, dall’opinione pubblica francese, alla più generale aggressività della nazione, sia sottolineando, del resto, la responsabilità della Germania stessa nella formazione di quella errata impressione.

Nel 1918 era uscito il Tramonto dell’Occidente di Spengler, che aveva contribuito a seminare nell’intera Europa (importanti, in proposito, gli studi di Domenico Conte) e in Francia in particolare, il dubbio che la Germania avesse l’intenzione e la forza di «rimediare» alla civilizzazione avanzante con una nuova «cultura». Mann si spende come può per allontanare questo spettro e della sua difesa appassionata della borghesia come crogiuolo di democrazia politica e culturale restano, anche in questo Resoconto, tracce ancora capaci di farci riflettere.