«La vita è dolorosa e infida. Inutile, dunque, scrivere altri romanzi realistici. Rispetto alla realtà in generale sappiamo già come comportarci; e non abbiamo nessuna voglia di saperne di più. L’umanità così com’è ci ispira al massimo una tenue curiosità. Tutte quelle “notazioni” di così prodigiosa finezza, quelle “situazioni”, quegli aneddoti… Tutto ciò, una volta chiuso il libro, non fa che rinforzare in noi quella vaga sensazione di nausea già sufficientemente alimentata da una qualsiasi giornata di “vita reale”».

Quando Michel Houellebecq ha scelto di dedicare un omaggio a quello che considera come uno degli ispiratori del proprio lavoro, Howard Phillips Lovecraft, tra i più grandi autori di letteratura fantastica del Novecento – Contro il mondo, contro la vita, Bompiani 2001 – lo ha introdotto non a caso con queste parole. Lovecraft stesso, del resto, aveva scritto «sono così stanco dell’umanità e del mondo che nulla suscita la mia attenzione se non comporta almeno due omicidi a pagina, o se non tratta di innominabili orrori provenienti da altri spazi».

Affermazioni, quelle dello scrittore di Providence, morto nel 1937, come quelle del suo controverso ammiratore transalpino nostro contemporaneo, che acquistano un significato particolare, non solo nel segno del paradosso, se misurate con l’opera di Thomas Ligotti, l’autore di Detroit prossimo ormai ai settant’anni il cui pessimismo radicale, unito ad una sfiducia totale nel genere umano, ne hanno fatto negli ultimi decenni un protagonista assoluto di quella narrativa del sogno, ma soprattutto dell’incubo, weird e fantastica che proprio a Lovecraft si ispira esplicitamente.

FIGURA DI CULTO, schivo al punto da essere stato fotografato di rado e di concedere altrettanto raramente interviste, che la sua bibliografia consta perfino di un volume che ne raccoglie alcune delle più fortunate – Nato nella paura, a cura di Matt Cardin, il Saggiatore, 2019 -, agli scritti di Ligotti si è ispirato Nic Pizzolatto, romanziere e produttore di New Orleans, per la prima stagione della serie tv della Hbo, True Detective, mentre nel nostro Paese i suoi testi sono pubblicati grazie al lavoro meritorio de il Saggiatore nell’attenta traduzione di Luca Fusari.

L’orizzonte di fondo nel quale si muove lo scrittore è la constatazione che il vero orrore, quello che è stato concesso in dono, ma a ben guardare in realtà imposto come una terribile condanna al genere umano, è lo stesso «essere vivi». «Per decenni svegliarsi all’ora giusta, e poi trascinarsi lungo l’ennesimo giro di umori, sensazioni, pensieri, voglie e infine crollare a letto a sudare nel buio del sonno profondo o bollire al fuoco lento delle fantasmagorie che molestano la mente in sogno». In questo risiede il fondamento di quella Cospirazione contro la razza umana, che è anche il titolo di un saggio letterario – il Saggiatore, 2016 – che muove dalla filosofia tedesca dell’Ottocento per giungere alle pagine della fantascienza e del soprannaturale, fino ai testi di Poe e Lovecraft, nel quale Ligotti ripercorre la propria inquietante «poetica delle tenebre». E dove, ancora una volta, conferma il proprio rivendicato debito nei confronti dell’universo oscuro creato da Lovecraft, per il quale, «la vita è una cosa orrenda; e sullo sfondo, dietro ciò che ne sappiamo, appaiono i baluginii di una verità demoniaca che ce la rendono mille volte più orrenda».

PER MOLTI VERSI Ligotti riprende, portandola però alle estreme conseguenze, la visione negativa del «maestro» del Fantastico» che nei primi decenni del Novecento assisteva con stupore e preoccupazione al modo in cui il progresso scientifico, da lui per altro osservato con ammirazione trepidante, avrebbe potuto rendere ancor più insignificante l’esistenza umana.

Laddove Lovecraft osservava il declino annunciato, e individuava nella paura il nuovo motore del mondo, lo scrittore di Detroit fotografa una realtà senza più scampo, dove solo l’auto-annichilimento della specie può offrire una terribile prospettiva di conforto. L’apparente placido tran tran quotidiano, i tempi e i modi della vita sociale nelle metropoli americane, l’intera misura della relazione dell’individuo con ciò che lo circonda, come con se stesso, si trasformano così nello scenario dell’orrore più totale, dove brandelli di sogni appesantiti da ombre minacciose sono destinati a rivelarsi pian piano con il loro vero volto di incubi avvolgenti ai quali è impossibile, o insensato sottrarsi.

LO SA BENE FRANK Dominio, l’anonimo quadro intermedio di una vecchia società sull’orlo di una minacciosa ristrutturazione protagonista di Il mio lavoro non è ancora finito, l’ultima opera di Ligotti pubblicata dal Saggiatore (pp. 214, euro 22). La sua vita si svolge all’insegna di una routine allo stesso tempo inquietante e protettiva, scandita dalle riunioni settimanali con gli altri sei responsabili di altrettanti settori dell’azienda, ma soprattutto dalla paura, in un contesto dove ogni novità è sinonimo di pericolo e dove «i colleghi» sembrano rivestire solo altrettante maschere di un tragico teatro della crudeltà.

L’uomo coltiva le proprie manie e la propria paranoia verso l’universo circostante, consapevole del proprio stato «ossessivo-compulsivo» e sembra trarre conforto solo dall’immergersi nel degrado e nell’abbandono più assoluti, vagando al crepuscolo per i quartieri semi abbandonati della città, laddove si irradia «il colore dei soli al tramonto e dei mondi allo stremo», per fotografare «vicoli e case in rovina, chiese con porte e finestre sbarrate, una biblioteca abbandonata (all’interno c’erano scaffali caduti e libri coperti di muffa, sparsi su un pavimento incrostato)». In particolare, ricorda Frank, «ero affezionato a una serie di foto scattate in un posto dove sopravviveva un cartello storto che indicava una via non più esistente: al suo posto era rimasto un sentiero di pietrisco sul quale si affacciavano i resti di strutture irriconoscibili».

La realtà, è il caso di dirlo, supera però anche i più cupi incubi che popolano la mente del frustrato travet. I suoi sei colleghi e il capo dell’ufficio coltivano effettivamente «un piano» oscuro che lo riguarda. La vendetta sarà inevitabile e Frank la compirà nel segno di uccisioni elaborate e assurde che sconfinano nel macabro fino cannibalismo e nel soprannaturale con la misteriosa scomparsa del nemico di turno. Ma lo stesso protagonista, prima di avere il tempo di completare la sua «lettera di dimissioni dalla razza umana», dovrà fare i conti con la propria apocalisse personale, misurandosi con «una presenza» che incombe e domina l’orizzonte, come «un nero oltre il nero del cielo nero, una costellazione di “punti oscuri”, simili a stelle in un negativo fotografico, che si radunava sopra di me e che avevo la sensazione di essere l’unico in grado di vedere».

ANCORA UNA VOLTA l’orrore si cela nella realtà, fin nei riti e nei cliché della vita quotidiana ma, sulla scorta di Lovecraft, Thomas Ligotti ammonisce sul fatto che l’America in rovine che prende corpo nelle sue storie, il degrado e la disperazione dove alligna una follia senza volto rappresentano solo l’ultimo tassello di una sfida che gli esseri umani hanno già perso e che si situa nello stesso mondo che credono di aver edificato, spalancando in realtà una porta sull’abisso.

Come scriveva Mark Fisher, lo studioso underground morto suicida nel 2017, in The weird and the eerie (minimum fax, 2016), indagando lo sviluppo dell’«inquietante» e dello «strano» nella cultura contemporanea, partendo proprio dall’opera di Lovecraft, misurarsi con questi elementi perturbanti significa porsi delle domande che possono essere formulate «in un registro psicoanalitico – se non siamo chi crediamo di essere, che cosa siamo allora? – ma che si applicano anche alle forze che governano la società capitalistica» che, comparse dal nulla, esercitano ciononostante «maggiore influenza di qualsiasi entità che sulla carta dovrebbe essere concreta». Quesiti a cui ognuno può cercare la propria risposta negli incubi concreti di Frank Dominio.