Da quando la biografia si è liberata delle diffidenze che ne hanno a lungo inibito l’evoluzione come genere critico e letterario, si è dovuta confrontare con difficoltà assai simili a quelle che hanno caratterizzato, nei secoli, lo sviluppo del romanzo. Perduta l’ingenuità originaria che la portava a identificare il proprio tema con la pura e semplice vita di un individuo, raccontata dalla nascita alla morte, la narrazione biografica ha dovuto prendere atto dell’impossibilità di rendere conto di un’esistenza come un tutto, ha dato spazio alle oscurità e ai dubbi che circondano anche le vicende più conosciute e studiate, e si è posta la questione – che è oggi il suo vero tema – dei limiti entro cui siamo in grado di illuminare una vicenda umana e di parlare, così, della storia.

Queste difficoltà mettono i biografi contemporanei dinanzi a un’alternativa antica: quella di organizzare comunque una rappresentazione compiuta conferendole i tratti della totalità, sia pure incerta, oppure quella di far parlare i vuoti, le lacune delle testimonianze, la frammentarietà dei documenti. Coloro che scelgono la prima strada compongono grandi affreschi narrativi in cui i dati certi si intrecciano alla descrizione del contesto storico, sociale, culturale o, anche, a considerazioni psicologiche e cercano, comunque invano, di fornire un’immagine esaustiva del loro oggetto. Chi invece intraprende l’altra via produce cronache sobrie, talvolta scarne e non prive di incongruenze in cui tutta la luce cade sulla forza di testimonianza dei documenti che il biografo si limita a raccogliere e combinare.

Di questo secondo genere di biografia è un risultato straordinario la Storia della famiglia Mann ricostruita da Tilmann Lahme che appare ora in italiano: I Mann (Edt, pp. 512, euro 26,00) nella traduzione efficace e capace di rendere la brillantezza dello stile originale di Elisa Leonzio. La nascita di questa biografia familiare sarebbe stata pressoché impossibile se qualche anno fa, in circostanze mai chiarite che generarono polemiche roventi in Germania, non fossero saltate fuori da un archivio privato quasi tremila lettere sconosciute che aprirono gli occhi sulle vicende intricate e quasi incredibili della vita privata di Thomas Mann e della sua famiglia, che l’odierno aggettivo «disfunzionale» descrive in termini ancora eufemistici.

Non tutto era nuovo. Si sapeva già del peso opprimente che un padre troppo famoso aveva esercitato sulla vita dei suoi figli, dell’attività frenetica e quasi disperata di Katia Mann per tenere in qualche modo insieme una famiglia costantemente in movimento e sempre minacciata dal rischio di autodistruggersi. Molto si sapeva della vita spericolata di Klaus e Erika, dei loro abusi di droghe, sesso e alcol, della fragilità patologica del figlio più giovane, Michael, della tragedia di Monika e della lunga strada percorsa da Golo e Elisabeth prima di trovare un sempre difficile equilibrio nelle loro esistenze. Ma vedere accostate le storie di genitori e figli in un unico racconto fa impressione – e aiuta a capire. Aiuta a capire perché questa famiglia, che nell’esilio americano veniva definita e amava definirsi the amazing family, con i suoi drammi e le sue commedie continui a restituire alla Germania – e a chi della Germania vuole capire qualcosa – un autoritratto grottesco, spietato e, insieme, grandioso.

Nel secolo buio da loro attraversato, i Mann hanno visto, vissuto, sofferto e raccontato di tutto: la danza sull’orlo del vulcano degli anni venti, l’esilio, l’opposizione al nazismo, il conflitto mondiale, l’America di Roosevelt, la persecuzione maccartista, la Guerra Fredda.
Lahme racconta questi passaggi nel modo sobrio di una cronaca scandita anno per anno, in uno stile secco, immediato, mai sopra le righe e con infinita ironia. Certo, la materia, molto spesso, lo aiuta. Ecco un esempio: Thomas Mann spera nel Nobel e si attiva presso personaggi influenti. In ottobre sente dire che l’Accademia di Svezia vuole premiare Arno Holz. Subito reagisce scrivendo a Gerhart Hauptmann che una scelta del genere sarebbe incomprensibile, assurda, uno scandalo. Il giornalista Hans von Hülsen rilancia le parole di Mann. Pochi giorni dopo il suo articolo Arno Holz muore e in novembre Mann riceve il premio. Subito i giornalisti lo inseguono per conoscere la sua opinione, in un’intervista si dimostra sentimentale: c’è un’ombra di malinconia che grava sulla sua onorificenza. Tanti altri avrebbero potuto essere al suo posto: «Non avrebbe forse Arno Holz meritato questo riconoscimento? La sua morte mi addolora doppiamente in questa circostanza».

Ma l’ironia e la freschezza del racconto e dello stile di Lahme non devono trarre in inganno. Dietro tutte le ipocrisie, le vanità e gli eccessi, dietro la ricerca compulsiva delle più diverse forme di alienazione, piacere e denaro, dietro alla superficialità, all’ingratitudine e al senso di superiorità che fanno a pezzi ogni possibile indulgenza del lettore ci sono costanti di sapore del tutto opposto. La vicenda dei Mann è una storia profondamente dolorosa. Esemplare la storia di Monika, la figlia fatua, sognatrice, pigra e, per questo, disprezzata in famiglia che, nella sorpresa generale, sposa uno storico dell’arte ungherese, Jenö Lanyi, e va a vivere a Londra dove, finalmente, trova un ambiente che sa apprezzarla. Purtroppo dopo poco tempo i bombardamenti di Hitler costringono i coniugi a lasciare Londra. Partono con un transatlantico diretto in Canada, dove vogliono cominciare una nuova vita, ma in mare aperto un siluro tedesco colpisce la nave. I superstiti vengono calati in mare con le scialuppe che, però, si rovesciano. Monika sente il marito chiamarla tre volte, poi lo perde di vista. Lei resta aggrappata a un pezzo di legno e viene tratta in salvo dopo molte ore. Persino questa volta la madre, Katia, si stupisce dell’attaccamento alla vita e della forza di volontà dimostrata da quella figlia che non capirà mai. Ma la storia ha giocato un’altra volta con uno dei Mann.

Come con la battagliera Erika, che in America lavora per l’Fbi ma ha simpatie comuniste e che quando, dopo aver seguito i genitori nel secondo esilio in Svizzera, cerca di rientrare negli Stati Uniti si vede opporre un rifiuto per un dossier della stessa Fbi. O come con Klaus, che tenta tre volte di entrare nell’esercito americano per combattere il nazismo nascondendo la sua omosessualità e la sua dipendenza dalle droghe e che quando, alla fine, ci riesce viene assegnato nelle retrovie a un ufficio da cui non vedrà mai la guerra: è l’ennesimo fallimento che, poco dopo, lo spingerà a togliersi la vita.
La biografia di Lahme è un capolavoro di ricerca documentale: incredibile quante migliaia di pagine di libri, diari e lettere vi si trovino incrociati e presentati in poco più di 400 pagine. Ma incredibile è soprattutto il risultato del libro, il suo modo lieve e profondo di mostrare la grande oggettività della storia in un caleidoscopio di destini individuali: difficile fare più di così.