«Appena si potrà noi riapriremo subito come già abbiamo fatto lo scorso giugno alla fine del lockdown». Non ha esitazioni Thomas Bertacche, esercente col Visionario di Udine ma anche distributore con Tucker Film, e direttore di festival, insieme a Sabrina Baracetti sono alla guida del prestigioso Far East Film Festival che è divenuto un riferimento centrale nell’economia del cinema asiatico mondiale. E che per la prossima edizione ha fissato le sue date in giugno, 11-19, la scommessa (e il desiderio) è di realizzare un’edizione in presenza – «Ma stiamo lavorando a un formato ibrido, dobbiamo capire come organizzarci, cosa proporre online, non è semplice. Sappiamo anche che non avremo molti ospiti, forse qualcuno dall’Europa, dall’Asia è quasi impossibile» dice Bertacche.

Per fronteggiare l’emergenza della pandemia hanno creato anche una piattaforma interamente dedicata al cinema asiatico, Fareaststream, catalogo magnifico da Ozu a Kore-eda.
E le sale? La possibilità di una riapertura ai primi di marzo, di cui si parlava anche se in modo non ufficiale nelle scorse settimane, sembra adesso sfumata. Anzi, a parte le parole di attenzione del nuovo presidente del consiglio Draghi, finora nella discussione politica la questione delle riaperture di sale cinematografiche e teatri non è apparsa una priorità.

Non sono state avanzate strategie, proposte, modalità possibili. In Spagna le sale sono rimaste quasi sempre aperte e i ristori qui dati per le chiusure lì sono stati invece impiegati a sostegno delle aperture, in modo da compensare gli incassi ridotti dalle capienze dimezzate, dal calo di pubblico a causa dei timori, dalla minore disponibilità – blockbuster in testa – di titoli sul mercato.

In Germania, dove il lockdown è stato esteso fino al 7 marzo, nel piano sulle riaperture teatri e sale sono stati subito inclusi. «È chiaro che al cinema si sta più sicuri che al ristorante visto l’obbligo di distanziamento e di indossare le mascherine. Ma non penso che sia questo il punto. Se cinema e teatri hanno avuto i ristori chi paga di più sono le persone, i lavoratori che da un anno in cassa integrazione con stipendi ridotti. Capisco che alcune sale fanno più fatica, specie quelle che basano la loro programmazione sui blockbuster americani ma è anche vero che altre hanno maggiori possibilità e sono sostenute dal loro pubblico».

A questo punto cosa faresti?
La prima cosa è chiedere al governo di fissare una data per le riaperture in modo da lavorare sui protocolli di sicurezza al meglio possibile – la capienza, le mascherine, i gel, tutto quello che si era già messo in atto in estate. E poi si deve pensare a un sistema di aiuti per stare aperti, almeno a quelli che possono e vogliono farlo; aprire significa garantire uno stipendio pieno a chi lavora.

Il «modello spagnolo» di sostegno all’apertura potrebbe essere quindi un buon punto di partenza?
Noi al Visionario apriremo appena possibile ma appunto capisco chi non ce la fa. La situazione per ogni sala è diversa: alcune sono dei punti di incontro, hanno una relazione forte col quartiere, altre no. I ristori a chi apre però sono fondamentali, sono la base per ripartire.

Nella distribuzione invece, con la Tucker, come pensate di muovervi nei prossimi mesi?
Abbiamo il restauro di In the Mood for Love – e altri sei film di Wong Kar-wai (presentato allo scorso Torino film festival), poi Kim ki-Duk dei film coreani del passato… Se si riapre entro maggio vorrei far uscire In the Mood for Love in 20/30 copie, in modo da poter distribuire anche gli altri di Wong Kar-wai; ognuno li potrà organizzare come vuole, prendere un titolo, proporre una rassegna. Se lo stop si prolunga sarà più complicato, il prossimo autunno si rischia l’intasamento.