Napoli, 1974: un giovane newyorkese arriva in città e comincia a girare per i quartieri più poveri e malfamati. Conosce poco l’italiano e per nulla il dialetto. Pernotta prima in squallidi albergucci, poi affitta a un prezzo esorbitante alcune stanze in un basso popolare del centro e vi si stabilisce per quasi un anno, nell’incredulità dei residenti. Nel quartiere (la «Fontana del Re») vivono famiglie molto povere, sospese fra disoccupazione, lavori provvisori e marginali, attività illegali e piccola criminalità. La sua casa è costantemente invasa da torme di bambini, e da bande di giovani con i quali cerca di costruire un rapporto di dialogo e amicizia. Lo considerano un po’ pazzo, cosa che succede spesso agli antropologi.

Belmonte, per di più, mette in atto la sua strategia di osservazione partecipante nel modo più radicale: si cala, solo e senza alcuna rete di protezione, in un ambiente del tutto estraneo, duro e pericoloso. Il giovane americano è ventottenne, viene dalla Columbia University, e da una scuola che volge lo sguardo antropologico non più soltanto verso i «primitivi» (specie dopo la decolonizzazione), ma anche verso i contesti moderni e urbani, in particolare verso i gruppi sociali più poveri e marginali.

Da pochi anni erano usciti i lavori di Oscar Lewis sulla «cultura della povertà», studiata nelle baraccopoli e periferie di città ispaniche con il metodo delle storie di vita. Belmonte, di una generazione successiva, segue quella stessa linea di ricerca: niente a che fare con i socio-antropologi americani che nei decenni precedenti avevano studiato piccoli villaggi del Sud Italia, come Banfield e Friedman, cercando di capire le basi culturali del sottosviluppo.

Apparentemente, a Belmonte non interessa comprendere le premesse storiche e culturali, ma disegnare una «fenomenologia della miseria». Il libro che scrive al suo ritorno, La fontana rotta (una prima traduzione italiana era già apparsa per Meltemi nel 1997 e ora Einaudi lo propone ritradotto da Daniele Petruccioli, pp. XII+192, € 19,00) tenta di dar conto di questa esperienza di radicale partecipazione etnografica facendo ricorso a una scrittura apertamente letteraria: alterna così racconti di episodi, ritratti di persone e ambienti sia pubblici che domestici, riflessioni soggettive e più rari spunti teorici.

Una ingenuità simulata
Belmonte accosta esplicitamente il lavoro dell’etnografo a quello del romanziere – affermando, con D. H. Lawrence, che loro scopo di entrambi è «portare alla luce un sistema di relazioni», e dunque entrambi «farebbero bene a evitare la tentazione della teoria pura».

Inoltrandosi nelle pagine del libro, il lettore (specie quello italiano) rimane all’inizio piuttosto sconcertato. Belmonte ci racconta il suo arrivo a Napoli più o meno come Lévi-Strauss raccontava quello nei villaggi amazzonici. Pretende di entrare in un quartiere povero napoletano come si farebbe in una società di cacciatori e raccoglitori senza scrittura: come se su questi luoghi e su queste prassi culturali non ci fosse già una sterminata storiografia, nonché una sociologia e un’antropologia «indigene». E pretende di scrivere sui luoghi e le persone di Napoli come se fosse il primo a metterli su carta, mentre ogni parola che usa risuona di una ben consolidata tradizione letteraria, da Malaparte a Rea a Anna Maria Ortese.

In realtà, non è ingenuo come vorrebbe far sembrare: quella storiografia e quella letteratura le conosce, ma non le usa per non annacquare il suo metodo, che consiste nell’imparare a nuotare semplicemente buttandosi in acqua. E in buona parte funziona. Il sottoproletariato urbano che descrive non si sa bene, è vero, come si sia costituito nella sua presente conformazione – in modi, ad esempio, diversissimi rispetti ad altre città italiane e a altri contesti meridionali. Sappiamo solo che è povero e circondato da classi (e da aree urbane) più ricche: un po’ poco.

Teatralità, furbizia, violenza
La presenza della camorra emerge a malapena in alcuni passaggi e non è mai messa a tema, così come troppo poco discusso è il rapporto con lo Stato e le sue istituzioni. Ma l’obiettivo fenomenologico è alla fine raggiunto. Il lettore si ritrova dentro il mondo della vita di «Fontana del Re»: e riesce a percepire in qualche modo dall’interno il senso di quelle esistenze e l’ethos che le governa. Individualismo, forza vitale, teatralità, furbizia, violenza sono i perni dell’universo morale che Belmonte tratteggia. L’aspetto più significativo sta nelle carrellate di personaggi comici e tragici al tempo stesso, mossi da grandi aspirazioni ma incatenati agli handicap sociali di cui non possono liberarsi: come «Lo storpio» ritratto da Spagnoletto nel 1642, immagine del frontespizio in cui Belmonte vede sintetizzata la drammaticità di una oppressione di classe naturalizzata o incorporata, con il piccolo mendicante che offre teatralmente il suo sorriso al Potere.

Di particolare efficacia sono i resoconti degli interni familiari. Casa e famiglia sono per i personaggi del libro luoghi di sicurezza e di riparo, ma anche intreccio di dinamiche violente, oppressive ed escludenti. Indimenticabili i racconti dei pranzi a casa di Stefano, Elena e dei loro sei figli: una famiglia i cui membri sono molto attaccati ma comunicano principalmente sulla base dello scambio di cibo, urla, insulti e botte, con effetti psicopatogeni che Belmonte potrà constatare in occasione di un suo ritorno a Napoli quasi dieci anni dopo, nel 1983, un ritorno discusso nell’epilogo di questa seconda edizione del libro, dove la situazione del lumpenproletariat giovanile napoletano viene presentata come ancor più compromessa, con il massiccio ingresso in scena di un ulteriore ingrediente economico e morale, vale a dire le droghe pesanti e le tossicodipendenze.

Malgrado gli intenti dell’autore, la teoria non manca e avanza anzi una interpretazione complessiva del fenomeno del sottoproletariato: radicato in un insormontabile divario quasi di casta, non è tuttavia riconducibile alla «coscienza» di classi più strutturate come quella contadina e operaia e non sembra dunque possibile avviarlo a una precisa posizione politica. La protesta si esprime in ondate di ribellismo e in una resistenza individualistica, scarsamente solidale e anzi mimetica rispetto al potere. Da qui la violenza endemica, la tendenza costante (persino in famiglia) alla sopraffazione.

Belmonte simpatizza con i suoi amici-informatori, ma resta al tempo stesso allibito da questa sorta di abisso morale in cui sono confinati. Ne attribuisce la responsabilità a una struttura sociale che crea e legittima disuguaglianze così radicali, che in fin dei conti spiegano (se non giustificano) il furto, la violenza, la crudeltà. E tuttavia Belmonte finisce per pensare che non vi sia una «salvezza» morale possibile. «Arrivando a Napoli – scrive – pensavo che la povertà fosse nobilitante, e che se ci si fosse dati la pena di instaurare un qualche tipo di relazione empatica con gli ultimi si sarebbe stati nobilitati di rimando. Ma la realtà delle classi infime di Napoli non è affatto nobilitante, né per chi la vive, né per chi la osserva». Andrebbe ricordato ancora oggi ai troppi cultori di una visione romantica dell’antropologia.