«Porto-Vecchio è come una riserva, racconta il regista Thierry de peretti, da questo nasce il titolo del film: ci sono i ricchissimi, ci sono i marocchini e ognuno vive nella sua riserva. Il punto di partenza del film è un fatto di cronaca, poi trasfigurato. I fatti si svolsero nella regione dove viveva mio padre, ma io andai via da lì a sedici anni. Il delitto è stato scoperto due anni e mezzo dopo che era accaduto. Uno dei colpevoli si è denunciato perché non sopportava più il peso della colpa. Due sono finiti in prigione.

La storia vera è una complessa vicenda di redenzione. L’omicidio non si sarebbe mai scoperto, perché il padre aveva dato il figlio per disperso e il cadavere non era mai stato trovato. Io ho scelto di sviluppare solo una piccola parte degli eventi. Intanto prendo io stesso come regista distanza dai fatti e la faccio prendere al pubblico con la prima scena che contiene in sé già tutto il film: l’immagine della villa dei ricchi di cui i marocchini fanno da custodi. Mi concentro piuttosto sul trauma dell’assassinio che racconta le contraddizioni dell’isola dove sono nato. Forse è proprio lì che mi riconosco, nel rapporto con l’isola. Non c’è niente del film che ho vissuto direttamente, piuttosto sensorialmente e infatti ogni volta che lo rivedo scopro dettagli che mi appartengono e che non avevo calcolato prima di girarlo. La mia giovinezza l’ho vissuta in modo diverso da quella dei ragazzi che si vedono nel film».

Thierry de Peretti come attore ha ottenuto il premio rivelazione dell’anno dal sindacato nazionale della critica nel 2001 per la sua regia «Le Retour au désert »di Bernard Marie-Koltès, ha recitato come attore anche al cinema, tra gli altri, in «Ceux qui m’aiment prendront le train» di Patrice Chereau. La preparazione del film è avvenuta come per un lavoro teatrale: un anno di lavoro con gli attori in continuo workshop, con un casting permanente nell’isola, passando molto tempo insieme «in modo che loro si adattassero alla sceneggiatura e la sceneggiatura a loro».

«Una delle sfide del film, dice, è la memoria collettiva di una comunità, far uscire il nome della vittima dai nudi fatti di cronaca e imprimerlo nella pellicola in una situazione cinematografica perché resti per sempre. Un’altra sfida era esorcizzare il delitto, girarlo prorio nel luogo dove è avvenuto, e che a raccontarlo non fossi solo io, ma fare in modo che appartenesse alla collettività, alle persone che lo hanno vissuto. Come per farlo diventare una testimonianza più arcaica, un po’ rituale. L’altra sfida era rappresentare la Corsica. Infatti è pochissimo rappresentata in letteratura, in arte. Ci occupiamo di questo fatto e non di storie più vecchie perché arriverebbero a noi ancora più filtrate: quello che interessa alla nostra generazione è il presente, rappresentare la Corsica attraverso le storie più dure e non attraverso i miti».

E la realtà, spiega, è che a Porto-Vecchio da un lato c’è una realtà ultracapitalista, un turismo ricco, sfrenato, dall’altro una sorta di violenza atavica, come appartenente all’isola: «non vorrei dire questo, aggiunge, ma è per spiegare. E la gioventù riflette tutto questo. Ajaccio è esplosa, la ricchezza è esplosa in quindici anni di investimenti turistici: italiani, tedeschi, francesi hanno costruito le ville, le famiglie locali hanno diviso i vari settori occupandosi chi dei ristoranti, chi dei bar, delle stazioni di servizio e si sono arricchite a loro volta. Tutto questo ha creato un nuovo paesaggio, con quartieri che non sono stati finiti di costruire per problemi di rivalità, di violenza.

La separazione etnica e razziale è forte: vanno tutti nella stessa scuola, nell’unico liceo di Ajaccio, ma la separazione avviene quando la scuola finisce. I motivi sono storici: alla fine della guerra di Algeria una parte dei pied noir (i francesi di Algeria ndr) sono stati cacciati e la Francia ha dato loro la possibilità di coltivare parte della Corsica. Loro hanno fatto venire lavoratori marocchini, con condizioni di lavoro veramente inaudite. I pied noir hanno allevato i figli pensando a una società separata tra colonizzatori e contadini africani. In questo delitto c’è paura della violenza introiettata, la paura del francese aguzzino. Tutti questi elementi lavorano nell’intimo dei personaggi. Il nazionalismo corso è nato proprio quando sono stati deportati i pied noir, la Corsica è un continuo esperimento».