La guerra di attrizione fra Londra e Bruxelles ricorda sempre più da vicino le trincee della prima guerra mondiale. Mercoledì le dichiarazioni infiammabili di Donald Tusk – che aveva parlato di «un posto speciale all’inferno» per «quelli che hanno promosso Brexit senza avere nemmeno uno straccio di piano su come condurlo a termine in sicurezza» – avevano incendiato i brexittieri più focosi.

E IERI THERESA MAY era di nuovo nella capitale belga, non si sa bene a cosa fare se non a guadagnare tempo. La dichiarazione improvvida del solitamente compassato Tusk è un chiaro segno d’insofferenza nei confronti dell’«incontentabile» posizione britannica. Ma se non è l’inferno evocato da Tusk, quello di May è senz’altro un purgatorio. Di nuovo a Bruxelles dunque, a elemosinare – lei direbbe negoziare – dei cambiamenti all’accordo. Ma, scontratasi puntuale con il niet alla ridiscussione oppostole da Junker e dallo stesso Tusk, May non ha potuto fare altro che ribadire la sua intenzione a «rinegoziare duramente» quanto la controparte non considera rinegoziabile perché già negoziato. Dieci giorni fa l’emendamento Brady – dal nome del deputato conservatore fattosene promotore – aveva raccolto sufficiente unità parlamentare attorno a una ridiscussione dell’accordo di uscita dall’Ue, sollecitata dalla stessa premier dopo che detto accordo – da lei stessa raggiunto e sulla cui non modificabilità aveva giurato fino a poco prima – era stato sonoramente bocciato ai Comuni.

TALE RIDISCUSSIONE avrebbe dovuto avere come presupposto l’eliminazione del backstop, la clausola di sicurezza finalizzata – nel caso in cui il Regno unito uscisse il prossimo 29 marzo dall’Ue senza un accordo (no deal) che ne regoli i futuri rapporti commerciali – a evitare un ritorno del confine fisico fra la Dublino e Belfast, confine che a sua volta metterebbe in seria discussione la pace faticosamente raggiunta nel 1998. Tale rischio sarebbe eliminato mantenendo l’Irlanda del Nord all’interno dell’unione doganale a tempo indeterminato, fin quando non sarà raggiunto un accordo sul futuro assetto commerciale fra le parti.

L’OSTILITÀ DIFFUSA non solo tra gli euroscettici al backstop è proprio circa l’indeterminatezza di questa durata, che potrebbe portare, in caso d’impasse prolungata, a una permanenza indefinita dell’Irlanda del Nord nell’Ue e quindi a una sua divisione di fatto dal Regno unito.

Naturalmente l’Ue si è più volte espressa in senso negativo rispetto a tale rinegoziazione: per Bruxelles l’accordo di uscita è quello che May non è riuscita a farsi accettare da Westminster, ergo non c’è nulla da rinegoziare, assecondando, in questo, i desiderata di Dublino. Ciononostante, lunedì riapriranno i colloqui fra il ministro per Brexit Barclay e Michel Barnier. May vorrebbe che Bruxelles acconsentisse a fissare una data limite per il backstop. Nel caso in cui tali colloqui non portassero a nulla, Westminster tornerà a votare il 14 febbraio su una mozione del governo intesa a esplorare nuove (im)possibili vie d’uscita (in buna sostanza, una riedizione del voto dello scorso 29 gennaio che aveva prodotto la «soluzione» Brady). Avanti così.

ANCHE NEL LABOUR FREME la tensione fra i backbenchers filo Ue che vogliono un secondo referendum e la linea ufficiale del partito di Corbyn, che in merito continua a nicchiare. Corbyn ha scritto una lettera a May elencando i punti in nome dei quali il partito è disposto a collaborare col governo ed eventualmente votare a suo favore dove il secondo referendum non era nemmeno menzionato. Non è chiaro se la fronda centrista arriverà a scindersi per creare una nuova formazione liberal.