Di padre etiope e madre olandese, nato e cresciuto a Londra, italiano di adozione e attualmente da un paio di anni stanziale a Berlino (ma non ha di certo abbandonato Roma, che considera sempre la sua città di riferimento), Theo Eshetu rappresenta, seppure relativamente giovane (neppure 57 anni, ma ben portati), un pioniere della videosperimentazione, curioso ed eclettico. Nel suo orizzonte estetico confluiscono infatti elementi desunti dalle arti visive, dal cinema, dalla fotografia, dal reportage, dal videoclip, dalla moda, dal teatro, dalla musica e da altri mezzi espressivi per dar vita a un oggetto, leggero e metamorfico: il video. Del resto Eshetu, fin dall’inizio, ha orientato il suo lavoro sul confronto tra i diversi linguaggi artistici, relazione che diventa concettuale, strutturale e, in qualche modo, anche antropologica e autobiografica.

In trent’anni di carriera i suoi video monocanale, le sue installazioni e i suoi progetti mixed media, sono stati esposti nei maggiori musei internazionali, soprattutto nell’ambito di mostre incentrate sul dialogo tra il nord e il sud del mondo. Eshetu ha inoltre lavorato con i massimi curatori del settore quali Okwui Enwesor, Simon Njami, Alfons Hug, Koyo Kouoh. Lo Smithsonian Institute for African Art di Washington DC gli ha dedicato una galleria nel museo intitolato Brave New World, che è anche il titolo di una sua caleidoscopica installazione di oltre dieci anni fa. Tra le gallerie che lo rappresentano vi sono la Axis Gallery di New York e la Lisson Gallery di Londra.

Negli anni ’80, quando in Italia il medium elettronico era ancora un oggetto non identificato, Eshetu realizzò diversi videotape e installazioni costruendo un interessante parallelo tra ontogenesi ed evoluzione dell’immagine in movimento: in Riti di passaggio o Back to Zero vengono rappresentate le varie fasi evolutive dell’uomo – nascita, giovinezza, matrimonio, morte – coincidenti con i continui slittamenti dalla fotografia al cinema all’arte elettronica. La riflessione sui mezzi di comunicazione (anche sul reportage e sul documentario diventa quindi una riflessione sulla ritualità dell’esistenza. Back to Zero può in un certo senso essere considerato come la fase estrema di questo processo iniziatico di metamorfosi, di transito: l’autore prende un b movie giapponese sadomaso manipolandolo elettronicamente, dilatando i tempi e i gesti della violenza e liquidando (o meglio rendendo liquida) – anche concretamente immergendola in un acquario con i pesci rossi – l’immagine cinematografica.

Travelling Light (1992), mediometraggio dedicato alla figura e all’opera di Lindsay Kemp, segna una fase di passaggio centrale nell’immaginario di Eshetu, coronamento del suo progetto di gesamtkunstwerk, videoteca di Babele dove trovano nuova collocazione le passate ossessioni e, al tempo stesso, opera dove si intensifica la sua riflessione sull’interazione mediatica, a partire dalla sua stessa, ambigua, struttura di (finto) documentario. Su questa elaborata trama costituita dai lampeggiamenti della pellicola e dalle pulsazioni dei pixel televisivi, si incontrano Oriente e Occidente, classico e moderno, verità e finzione, cinema e video, teatro e vita, generando l’ennesimo ciclo rituale di nascita, morte (Kemp muore ben due volte nel video) e trasfigurazione.

Nei decenni successivi la poetica visiva di Eshetu si è indirizzata più marcatamente verso una riflessione sulla propria identità etnica: il suo essere apolide e al tempo stesso recuperare le radici etiopi, riemerge per esempio nella genealogia personale esposta ne Il sangue non è acqua fresca (1997), ripresa poi con l’imponente e articolato progetto multimediale legato all’obelisco di Axum. Nel documentare la restituzione di questo monumento sottratto al popolo etiope durante il fascismo – restituzione a lungo ritardata, simbolo di un’archiviazione del colonialismo, di una riconciliazione solo apparente che non sana le ferite di una conquista violenta – Eshetu costruisce la metafora di un ulteriore ritorno alle proprie radici. Con un involontario controbilanciamento, l’artista dedica nel 2010 un grande affresco alla capitale dell’ex Impero: Roma è una straordinaria sinfonia urbana expanded, concepita su tre schermi, che esiste in due versioni musicalmente opposte, una più tradizionalmente sinfonica con la partitura di Peter Maxwell Davis, l’altra decisamente underground con la musica di uno sperimentatore quale Alvin Curran.

Ma Eshetu si è concentrato negli ultimi anni soprattutto sulla installazione: e del resto molti suoi video cosiddetti monocanale, tendevano ad acquistare una dimensione expanded. Tra le sue installazioni ricordiamo Sacrifice (2011), che fa parte di una serie di lavori realizzati in Kenya, caleidoscopica visione di vita e di morte trasfigurata fino all’astrazione, che si ricollega in fondo al sincretismo visivo di tutta l’opera eshetiana.

Un’altra sua recente installazione è Kiss the Moment (2013), frutto della residenza d’artista berlinese – il celebre DAAD, che in vari decenni ha ospitato soprattutto musicisti, basti pensare a una figura come quella del calibro di John Cage –: 18 schermi LED verticali, che compongono una sorta di finestra sul mondo, quasi una simulazione della vetrata dello studio da cui Eshetu, per molti mesi, ha potuto osservare la realtà tedesca e che è poi è diventata uno spettacolare dispositivo in cui incorniciare un “panorama”, un paesaggio cangiante di luoghi, colori, frammenti, visioni.

L’AFRICA, L’EUROPA, IL VIDEO

Conversazione con Theo Eshetu

Come mai hai scelto di usare il video come strumento per fare arte?

Quando ho cominciato il video era un medium molto nuovo e c’era ancora parecchio da scoprire. Non conoscevo altri videoartisti. Ero appassionato di fotografia e pensavo di poter definire una mia identità attraverso un nuovo strumento, poiché il video non aveva una sua storia, non aveva una sua identità, appunto, a differenza di altre forme di arte. Era questo che mi attirava di più: potevo inventare un genere, visto che nessuno sapeva quale forma dovesse avere un’opera video. Ammiravo fotografi come Cartier-Bresson, Friedlander Winogrand o la Arbus, che avevano portato la fotografia fino a un limite espressivo che non pensavo di poter superare, mentre con il video mi trovavo di fronte a un terreno vergine da esplorare, con il suo valore, il suo linguaggio e la sua poesia.

Tu hai studiato a Londra, puoi parlarci del tipo di formazione che hai avuto?

A Londra avevo frequentato un corso di comunicazione visiva. Ho imparato abbastanza bene la tecnica: la fotografia, il suono, il montaggio, ecc. Non mi interessava usare il video per fare spot pubblicitari o altri lavori di comunicazione ma volevo usarlo come mezzo di espressione artistica, quindi ero abbastanza malvisto dai miei colleghi di corso, perché consideravano il mio approccio autoreferenziale. Ero influenzato principalmente dal cinema underground di Kenneth Anger, Andy Warhol e Derek Jarman, tre importanti artisti che usavano i mezzi di comunicazione per fare espressione artistica. La fotografia era legata in quegli anni all’arte concettuale o agli happening, ma la trovavo priva di una parte estetica. La mia idea era semplice, quasi banale, ovvero utilizzare il video per fondere due aspetti del fare video, una ricerca estetica e una componente concettuale. Mescolare cioè l’approccio decorativo con la ricerca di un significato più profondo, che andasse oltre l’apparenza.

Quando sei arrivato a Roma nel 1982 che tipo di contesto hai trovato? La videoarte era ancora in una fase primitiva…

Avevo 23 anni, mi ero appena laureato e avevo però già realizzato quattro video, presentati in festival locali come VideoRoma, ma anche più importanti come a Torino e al festival di video e tv di Salsomaggiore. I primissimi lavori trattavano gli argomenti più svariati senza una precisa direzione, ma quasi da subito mi sono immaginato un progetto più articolato, un disegno costante e, intuitivamente, ho scelto di utilizzare rituali africani per esplorare le capacità visive del mezzo, realizzando una serie di video sotto il titolo Finché morte non ci separi, basata da un lato su rituali della tribù dei Nuba (che ho scoperto attraverso una lettura critica delle foto di Leni Riefenstahl) e dall’altro sull’uso quasi giocoso degli orribili effetti elettronici che la tecnologia video consentiva. Il mio obiettivo era cercare di capire quale fosse il linguaggio specifico del video e la sua poesia e in quel senso il rituale è il modo migliore per esplorare l’ignoto. Erano pochi quelli che in Italia all’epoca focalizzavano la loro passione, il loro interesse sul video come mezzo degno di considerazione artistica. Questo medium era visto come uno strumento di divulgazione. La gente del mondo dell’arte e del cinema lo giudicava qualcosa di inferiore, a differenza di oggi che invece tutto ormai è video!

Parliamo della genesi di Travelling Light, il tuo primo lavoro davvero importante, incentrato sulla figura di Lindsay Kemp, ma anche un video che segna uno spartiacque all’interno della tua attività.

Tutta la sperimentazione che ho fatto negli anni ’80 era incentrata sull’idea che il video, a differenza della televisione, poteva essere l’espressione di una realtà vista dall’individuo, e come tale lo usavo nelle sue diverse forme artistiche: installazioni, documentario, astrazioni. Esploravo insomma la gamma dei generi all’interno dell’universo elettronico, esattamente come avveniva nei diversi generi che compongono la televisione. Poi all’epoca la videoarte era anche un modo per ribellarsi contro l’istituzionalizzazione dell’arte, nonché una forma espressiva che poteva entrare direttamente nei salotti delle persone attraverso lo schermo televisivo: l’idea che non era la gente a dover andare nelle gallerie per vedere l’opera, ma che fosse l’opera stessa ad entrare nelle case. Mi rendevo conto pero che la televisione non era interessata ai miei lavori sperimentali e non lo sarebbe mai stata, quindi ho progettato qualcosa di più ambizioso dal punto di vista produttivo, con un soggetto che non fosse solo la mia visione delle cose, ma dove poter applicare un linguaggio artistico ad un genere televisivo. Quando ho incontrato Lindsay Kemp, ho capito subito che era la persona giusta. Non solo era un visionario che aveva lavorato con Bowie e Jarman con cui sentivo una certa affinità, ma era anche un personaggio del quale potevo fare un ritratto. Da Lindsay ho compreso come essere profondi e complessi ma con estrema leggerezza. Rispetto alle tematiche più seriose degli anni ’80, il mio lavoro con lui ha raggiunto una sua “complessità leggera”. Lo stesso concetto di leggerezza l’ho desunto anche dalle Lezioni americane di Calvino. Ecco, Travelling Light ha rappresentato l’apice di tutto il lavoro sperimentale che avevo fatto prima e ha determinato un punto di svolta che mi ha portato ad esplorare il documentario come genere da rivalutare.

Parliamo ancora della committenza televisiva. A parte Travelling Light tu hai realizzato altre opere video con il contributo di network televisivi, inoltre alla fine degli anni ’90 hai lavorato anche per RaiSatArt, primo canale satellitare italiano dedicato all’arte.

Intorno al 1997 la mia amica Angelica Grizi, all’epoca responsabile di RaiSatArt, ebbe l’idea di chiamarmi a realizzare un documentario/opera video sulla Biennale di Venezia. Inizialmente ero dubbioso, poiché credevo che non avrei avuto la libertà necessaria, ma lei mi rassicurò dicendomi che avrei avuto carta bianca (vale a dire: budget basso). Così documentai l’edizione della Biennale di Szeemann, mettendo in sottofondo unicamente un assolo di flauto indiano, per sottolineare la sua apertura verso mondi non occidentali. Fu una scelta estrema da un punto di vista televisivo, eppure coerente artisticamente. La cosa piacque e da quel momento feci diversi documentari, sempre esplorando gli estremi del linguaggio della tv con una liberta che non mi sarei mai aspettato di poter avere in Rai.

Cosa ha comportato questa sorta di tua pluridentità etnica nella creazione di immagini in movimento. Anche i tuoi video possono essere considerati in qualche modo apolidi?

Quando ho iniziato a lavorare con il video, come ho già detto non avevo alcuna idea di come utilizzarlo, ma il mio essere inglese di nascita, olandese da parte di madre, etiope da parte di padre e residente in Italia, mi ha spinto a indagare l’identità del video parallelamente alla mia identità geografica e culturale. Quello che poteva essere un problema di mancanza d’identità, utilizzando il video si è rivelata una forza. Potevo usare il medium con una certa flessibilità, prendendo un po’ dal cinema, un po’ dal teatro, un po’ dalla musica, insomma da culture diverse. Ho creato un parallelo tra i due ambiti e la mia ricerca mette a fuoco proprio come superare il punto di vista nazionalistico o monolinguistico creando una fusione di diversi modi di vedere la realtà. Mi ritengo fortunato perché si tratta di una questione attuale: cioè come capire il mondo non dal punto di vista di una nazione forte rispetto a una debole, ma dall’unione di diverse sensibilità che si fondono per creare una visione più articolata di ciò che ci circonda.

E anche dall’opposizione tra Oriente e Occidente, tra due culture molto diverse, spesso conflittuali.

Nei primi video c’era un dialogo evidente tra Africa ed Europa, anche se non ero cosciente del fatto che il trait-d’union fossi io. Solo in un secondo tempo mi sono reso conto che erano lavori autobiografici. Ma l’interesse del dialogo tra le culture va oltre la mia biografia. Ho fatto per esempio anche un video sul buddismo, pur senza essere buddista, anzi, diciamo che forse lo sono diventato dopo. Semmai è il contrario: sono i video che mi avvicinano a certi mondi. Per esempio prima di realizzare Travelling Light non mi interessava il teatrodanza, mentre dopo è diventato parte del mio linguaggio. Non ritengo che l’artista debba esprimere ciò che è attraverso la sua arte, bensì qualcosa che è al di sopra di sé stesso. I miei video sul mondo Islamico sono circoscritti a un decennio, che inizia con l’11 settembre e finisce con la rivolta nei paesi arabi. Un decennio segnato dal rapporto tra l’Occidente consumista e il mondo islamico. E’ il tema più importante che ci sia, a livello politico, filosofico e quindi anche estetico. L’arte ha questa valenza a mio avviso, non è espressione di un individuo che fa tutto quello che gli passa per la testa, ma la testimonianza di come reagisce al mondo che lo circonda e come lo vorrebbe cambiare, di come ha digerito il passato e di come sogna il futuro.

Uno dei tuoi lavori più importanti sul dialogo tra culture è Il sangue non è acqua, lungometraggio autobiografico poiché è un viaggio nella cultura etiope, alla ricerca delle tue radici.

In diversi video che ho realizzato, l’Africa, era un luogo metaforico e concettuale. A un certo punto sono voluto entrare concretamente in questo luogo delle mie origini che mi era estraneo pur appartenendomi. Era un luogo di memorie dimenticate poiché ho vissuto lì per pochi anni da bambino. Europeo di testa, avevo un’anima africana che ignoravo. L’esperienza di andare in Etiopia a conoscere mio nonno, che è stato un celebre storico, per farmi raccontare la storia culturale del mio paese, è stata un’esperienza decisiva, dal punto di vista sia personale sia artistico. Con questo lavoro è giunta a maturazione quella mescolanza tra le arti che ho sperimentato fin da Travelling Light,ma anche il confine tra arte e documentario. Il sangue non è acqua fresca è un film sulla scoperta delle mie origini e, al tempo stesso, sia un ritratto di mio nonno che di un paese che ha un forte legame storico con l’Italia.

Come mai per gran parte della tua attività hai privilegiato video monocanale rispetto a videoinstallazioni?

Ho fatto video monocanale soprattutto perché m’interessava il dialogo con la televisione e sviluppare un discorso di cinema non narrativo. Volevo capire come attraverso l’arte e una ricerca introspettiva si potesse fare una televisione più interessante. Tuttavia, già dai primi anni ’80, ho creato installazioni: Finche morte non ci separi del 1986 è stata una delle primissime che ho presentato internazionalmente. Era composta da una parete di 20 monitor che ho potuto realizzare grazie all’incontro con Gigi Loreti, l’inventore del videowall. Da parte mia c’era la volontà di fare più installazioni, ma pochi Musei sostenevano questa attività. Nel 2000 con Brave New World sono ritornato alla videoinstallazione e dal 2006 realizzo quasi esclusivamente lavori di questo tipo. Oggi il lavoro più richiesto è l’installazione di quindici schermi sull’Obelisco di Axum.

La componente sonora e musicale è molto importante nel tuo lavoro. Ci puoi parlare dello scambio che avviene tra questi due mondi?

A Londra ogni mio amico era un musicista e anche io volevo esserlo ma, non sapendo suonare, ho spostato mia attenzione sulle immagini, conservando uno spirito musicale. In fondo il procedimento di creazione della musica è simile a quello del video e viceversa. Il video per me non è come il cinema, che resta una forma narrativa, o come il teatro, che si basa su corpi e dialoghi, ma è costruzione e strutturazione di immagini con una componente narrativa astratta molto simile alla composizione musicale. Fin dai mei primi video ho quindi intessuto un rapporto speciale con la musica che, in molti casi, ha influenzato le scelte estetiche soprattutto per quello che riguarda lil modo di strutturare un video o la metodologia di realizzazione. Penso al free jazz o alla musica d’improvvisazione per creare relazioni con le immagini, dove il soggetto si sviluppa molto liberamente a partire da strutture predefinite.

In seguito hai anche collaborato con musicisti.

Si, per esempio con Alvin Curran ho realizzato Living Room Music dove video e musica sono improvvisati nel salotto di casa sua. Un altro esperimento fatto con Alvin è stato Roma, che esprime il punto di vista di due stranieri che vivono nella città eterna. Più recentemente con Alvin ho realizzato proiezioni per un concerto dal vivo, Circo Massimo, dove il titolo allude sia al luogo in cui lo abbiamo in parte girato, sia al senso di eccesso, di esagerazione, cioè il “massimo” del circense. Da tempo sto collaborando con il compositore inglese Peter Maxwell Davies, ma anche con musicisti d’improvvisazione delle scena berlinese. A me, che sono un appassionato e un collezionista di dischi, viene spontaneo rapportarmi con musicisti e compositori.

Il tuo rapporto con la tecnologia?

Per la verità odio la tecnologia, non so mai dove infilare un cavetto. E’ buffo, da studente ho appreso come si fa tecnicamente un video, ma ho notato che chi rincorre la tecnologia poi la adopera in modo fine a se stesso, senza usare il pensiero, il cuore e la comunicazione di idee. Certo, nel campo del video la tecnologia è importante, ma va messa da parte al più presto, è solo uno strumento che ci consente di guardare la realtà in maniera immediata e verosimile. Questa è la cosa più interessante del fare video.