Entrare nella storia della musica con soltanto due album pubblicati, di cui uno ben poco apprezzato da critica e pubblico al momento dell’uscita, non è un’impresa da tutti.
Gli Stone Roses ci sono riusciti, scrivendo una pagina nuova del rock britannico e cambiandone il destino da un giorno all’altro. Con il loro omonimo album d’esordio, uscito esattamente trent’anni fa, non solo conquistarono il Regno Unito, ma presentarono al mondo una scena musicale – quella della loro città, Manchester – che ha ispirato la nascita di un nuovo linguaggio artistico e di generi musicali tuttora in voga.
Tra anni Ottanta e anni Novanta, infatti, il freddo centro industriale nel nord-ovest dell’Inghilterra ha conosciuto il periodo più intensamente creativo della sua storia. Tra rock alternativo, acid house e i lisergici effetti dell’ecstasy la città era come impazzita: un’atmosfera magica e carica di folle entusiasmo la avvolgeva ogni notte, trasformandola in Madchester.
Una decina di band e altrettanti dj in continua collaborazione e competizione tra loro; un vulcanico discografico con licenza di sperimentare; un locale diventato leggendario e tanti giovani con tanta voglia di divertirsi: sono questi gli ingredienti che hanno reso possibile – a vent’anni dalla Summer of Love del 1967 – una nuova, stupefacente, Stagione dell’Amore. Questa volta, però, all’inglese.

DINASTIA ARTISTICA
Ma perché proprio a Manchester? Innanzitutto per una sorta di tradizione locale, quasi folkloristica. Sono diverse le mode e le tendenze in ambito musicale che, storicamente, sono passate prima da queste parti per poi diffondersi nel resto del paese.
La mitica dinastia artistica della città viene fatta risalire addirittura a un singolo evento: il concerto dei Sex Pistols alla Lesser Free Trade Hall del 4 giugno 1976. Ad assistere al live del quartetto punk londinese, in una delle loro prime uscite fuori Londra, quella sera c’erano poco più di quaranta persone. Un fallimento colossale, se non fosse che quello spettacolo passerà alla storia come uno dei più influenti di sempre. Oltre agli organizzatori – Pete Shelley e Howard Devoto, rispettivamente cantante e chitarrista dei primi Buzzcocks – tra il pubblico erano presenti personaggi come Mark E. Smith, voce e anima dei Fall, un giovanissimo Morrissey, che alcuni anni più tardi con l’amico Johnny Marr formerà gli Smiths, e Peter Hook, il fondatore e bassista dei Joy Division. Non poteva mancare, inoltre, quella che sarebbe diventata la figura fondamentale della musica cittadina di tutti gli anni Ottanta: Anthony H. Wilson, per tutti Tony, che non per caso passerà alla storia col soprannome di «Mr. Manchester».
È impossibile raccontare il fenomeno Madchester senza partire da lui. Popolare conduttore televisivo, discografico per vocazione ed eccezionale scopritore e valorizzatore di talenti, Wilson è stato il vero e proprio ispiratore e agitatore della scena. Innanzitutto grazie alla sua trasmissione su Granada Tv, con cui ha formato il gusto musicale di migliaia di appassionati, ospitando fin dagli anni Settanta le esibizioni dal vivo dei gruppi emergenti più dirompenti e iconoclasti di tutto il paese.
E poi con la sua etichetta discografica, chiamata Factory Records in omaggio al suo idolo Andy Warhol, con cui metteva sotto contratto le band che scopriva sui palchi di tutto il North West senza accettare consigli da nessuno se non dal suo eccentrico istinto d’ispirazione situazionista. Per intenderci, è a lui che si deve la scoperta di un gruppo semisconosciuto, i Warsaw, che anche grazie ai suoi consigli diventeranno famosi come Joy Division prima e New Order poi.
Nel 1982, inoltre, Wilson aggiunse al suo sacro impero quella che ne sarebbe diventata la cattedrale, l’Haçienda: non solo un locale dove far suonare i suoi gruppi e all’occorrenza scoprirne di nuovi, ma anche – e soprattutto – un club come non ce n’erano in Europa, in cui poter dare spazio alla musica elettronica e dance più innovativa e rivoluzionaria, guardando in particolare a Ibiza e alla nascente scena house di Chicago. Questo e molto di più era l’Haçienda, il locale che non chiudeva mai: è tra le sue immense sale da ballo che i giovani di Manchester passavano nottate infinite a sfogare nel divertimento più sfrenato e nelle nuove droghe chimiche la propria disillusione e preoccupazione per un futuro che appariva incerto e insidioso come mai prima.

WORKING CLASS
Nello stesso periodo, infatti, a causa delle riforme economiche e monetarie targate Margaret Thatcher – primo ministro proprio in quegli anni – la città pagava caro il suo essere quasi completamente dipendente dall’industria pesante; la chiusura di numerose fabbriche e il conseguente aumento della disoccupazione misero in ginocchio la working class e i più giovani che, dimenticate la radicalità e la politicizzazione dei decenni precedenti, trovarono nella musica e in nuovi spazi di aggregazione una forma di resistenza e opposizione per la propria condizione precaria.
Fu così che, intorno alla metà degli anni Ottanta, una serie di nuovi gruppi fiorirono a Manchester e dintorni, cambiando per sempre il volto della città, fino a quel momento conosciuta soltanto per le sue due squadre di calcio e per essere servita a Charles Dickens come ambientazione per il suo romanzo Hard Times, anche se celata sotto il nome fittizio di «Coketown».
Quasi tutte le realtà musicali più interessanti appartenevano alla scuderia Factory: gli A Certain Ratio dell’album Force, i Durutti Column, il cui nome tratto dall’Internazionale Situazionista tradiva l’influenza wilsoniana, i James, i sottovalutati Northside e, soprattutto, gli Happy Mondays dei fratelli Ryder e del mistico ballerino-con-maracas Mark «Bez» Berry, uno dei personaggi-simbolo di Madchester. Questi ultimi in particolare, notati e scritturati da Wilson in quanto ultimi classificati in una Battle of the Bands tenutasi all’Haçienda, rappresentavano la sintesi perfetta delle due anime che componevano la scena: la loro musica univa sonorità pop, rock e funky a contagiosi ritmi dance, a cui si aggiungevano i testi balordi e la voce sguaiata del loro cantante, il debosciato Shaun Ryder, che invero Wilson considerava una sorta di Yeats moderno, e non solo per la comune passione per le sostanze stupefacenti. È loro la canzone divenuta inno generazionale e manifesto di Madchester: 24 Hour Party People, tratta loro album d’esordio prodotto da John Cale.
Gli Stone Roses, invece, partivano più defilati. La band si era formata nel 1984 dall’incontro tra Ian Brown e John Squire – amici che condividevano le passioni per il punk e lo spirito Northern Soul – a cui si aggiunsero in un secondo momento il virtuoso batterista Alan «Reni» Wren e Gary «Mani» Mounsfield, bassista già discretamente conosciuto nell’ambiente musicale cittadino.

IGNORATI
Nonostante in città si parlasse già tanto di loro fin dalle prime uscite – in particolare per i complimenti ricevuti da Pete Townshend (il chitarrista degli Who) in persona, casualmente presente alla loro prima esibizione live, e per un’efficace campagna promozionale «autogestita» a base di graffiti sui muri della città – la band era volontariamente ignorata da Tony Wilson, che si rifiutava di riconoscerne il talento perché rappresentata da un manipolo di suoi ex soci diventati concorrenti. Per fargli cambiare idea furono necessari alcuni anni e, soprattutto, un tranello orchestrato da Gary Whelan, batterista dei Mondays: a Wilson fu recapitato il demo di Elephant Stone, tra i primi singoli dei Roses, in maniera totalmente anonima. Dopo averlo ascoltato, Mr. Manchester ammise il suo errore e per farsi perdonare invitò gli Stone Roses a esibirsi in diretta a The Other Side of Midnight, il suo programma, scusandosi per il ritardo. La band suonò un unico pezzo, l’allora inedita Waterfall, e quello fu il trampolino che li lanciò definitivamente verso il successo.
Il loro primo album omonimo uscirà pochi mesi più tardi, nel maggio 1989, ottenendo istantaneamente un ottimo riscontro di vendite e l’approvazione dei più influenti media specializzati. Le undici canzoni del disco rivelavano un’identità musicale unica e originale, in cui trovavano spazio allo stesso tempo l’energia del punk anni Settanta e melodie più orecchiabili e chitarristiche ispirate al beat e alla psichedelia anni Sessanta di band come Byrds o Kinks. Il tutto, miscelato a impulsi contemporanei, come i ritmi sentiti all’Haçienda o di band indie rock in ascesa come gli scozzesi Primal Scream. Questo era il suono che rendeva gli Stone Roses irresistibili, e che li porterà a diventare i capostipiti dell’ondata britpop che travolgerà l’Inghilterra dagli anni Novanta in poi. Non è possibile, infatti, immaginare gruppi come Oasis, Blur e Verve, o i più recenti Kasabian, senza prima passare per loro.
Fin dai primissimi tempi, però, la band ha dovuto fare i conti con l’unico vero ostacolo di una carriera altrimenti in discesa: il carattere. In realtà, in un primo momento, la spocchia e l’esuberanza di Ian Brown risultarono utili quasi quanto la sua voce per far parlare del gruppo. Sicuro di sé, strafottente e mai banale, King Monkey – come è conosciuto in patria – era il modello perfetto per rappresentare la generazione Eighties che in quegli anni assisteva al diradarsi della corrente post-punk britannica. Le interviste promozionali dell’album, rintracciabili online, sono imperdibili, tra lunghi silenzi, dichiarazioni megalomani e ironiche provocazioni ai danni dei giornalisti.
Ma i guai erano dietro l’angolo. In primis quelli legali, causati da un’irruzione notturna – con devastazione – negli uffici della loro stessa etichetta, colpevole di aver pubblicato, sulle ali dell’entusiasmo per il successo dell’album, la ristampa di un singolo, Sally Cinnamon, a loro insaputa e senza renderli partecipi dei guadagni. E poi ci furono una serie di scelte sbagliate, forse dettate dall’inesperienza o dall’eccessiva tracotanza di una band sempre troppo sicura dei propri mezzi: nel 1990, ad esempio, i Roses cancellarono il tour statunitense a pochi giorni dalla partenza perché – parole loro – «l’America non è ancora pronta per una band grande come la nostra». Per la pubblicazione del secondo album, invece, si fecero attendere per cinque lunghissimi anni, in sfregio alle logiche commerciali del tempo. Come se il ritardo non fosse stato abbastanza, Second Coming spiazzò anche i fan più pazienti, che si trovarono ad ascoltare canzoni ben più complesse e dispersive rispetto a pezzi storici come I Wanna Be Adored, Made of Stone o Fools Gold, ancora oggi considerati veri e propri classici. Infine lo scioglimento, nell’aria da tempo, al termine del secondo tour, per insanabili contrasti interni al gruppo.

CROLLO
Ian, Reni, John e Mani torneranno insieme nel 2012, annunciando un tour mondiale e il ritorno in studio di registrazione. L’obiettivo della reunion era recuperare il tempo perso e replicare i successi della tournée post 1989, quella che vide il suo apice nella cosiddetta Woodstock di Madchester, lo storico concerto di Spike Island a cui quasi 30mila giovani accorsero per vedere i propri idoli dal vivo supportati dai migliori dj dell’Haçienda.
Ancora una volta, però, le cose non andarono per il verso giusto. Dopo cinque anni travagliati tra concerti riusciti e altri annullati all’ultimo momento, litigi e annunci andati a vuoto per la pubblicazione di un terzo album, nel 2017 gli Stone Roses si sono sciolti nuovamente, annunciandolo al pubblico della loro ultima data con un’enigmatica frase: «Non siate tristi perché è finita, siate felici perché è successo».
Anche il periodo magico di Manchester ebbe una durata limitata: la scena che animava la città, purtroppo, si sgretolò con la stessa foga e velocità con la quale era nata alcuni anni prima. Entro la fine degli anni Novanta i due pilastri che la sorreggevano crollarono inesorabilmente. Prima la Factory Records, che fu costretta alla chiusura per gli enormi debiti contratti anche a causa dell’approssimativa gestione degli affari da parte del suo proprietario. Un esempio per tutti, la scelta di mandare gli inaffidabili Happy Mondays alle Barbados per la scrittura e la registrazione del loro quarto disco, a spese dell’etichetta: il gruppo tornò in Inghilterra dopo quasi un anno, senza più un soldo e con il lavoro ancora da iniziare. Per la cronaca, l’album – intitolato Yes, Please! – uscì alcuni mesi dopo e fu un flop commerciale senza precedenti. Celebre fu la recensione apparsa su Melody Maker che, ironizzando sul titolo, si limitò a un commento di sole due parole: «No, thanks!».
Poi venne il turno dell’Haçienda, chiusa definitivamente nel 1997 dopo anni di crisi economica e dopo che alcune gang criminali locali (assunte come servizio d’ordine) alzarono eccessivamente l’asticella della violenza, rendendo più volte il locale teatro di sparatorie e rese dei conti. Nel 2009 Peter Hook, socio di Wilson nella gestione del locale, ha scritto e pubblicato un libro su quell’esperienza, chiamandolo appunto How not to Run a Club.
I due fallimenti, seppur dolorosi, non scalfirono la voglia e l’entusiasmo di Tony Wilson, che continuò a lavorare in televisione e a impegnarsi per lo sviluppo artistico e culturale della sua città fino alla morte, avvenuta per un infarto nel 2007. Il suo monumento tombale al cimitero di Manchester è un’elegante pietra monolitica completamente nera, disegnata e progettata da Peter Saville, fedelissimo grafico autore delle copertine più iconiche e rappresentative della Factory. Ripensando alla storia di Wilson, anche l’epitaffio – tratto dal romanzo ottocentesco di Isabella Banks The Manchester Man – risulta essere particolarmente azzeccato: «La mutabilità è l’epitaffio dei mondi. Il cambiamento da solo è immutabile. Le persone abbandonano la storia di una vita come di una terra, sebbene il loro lavoro o la loro influenza rimangano».
Molte delle band di Madchester sono ancora in circolazione. Gli Happy Mondays, ad esempio, dopo aver toccato il fondo per i problemi di tossicodipendenza di Shaun Ryder e per la partecipazione (con vittoria) di Bez all’edizione inglese del Grande Fratello, si sono riuniti nel 2012 ed è notizia recente l’annuncio di un Greatest Hits Tour che il prossimo autunno toccherà diverse città del Regno Unito.
Per quanto riguarda gli Stone Roses, invece, non ci resta che ripensare alla loro ultima frase e goderci gli unici due album che ci hanno regalato a eterna testimonianza del loro talento e della loro grandezza. D’altra parte, però, chi si fida di una band che – a partire dall’ossimoro del nome – è sempre stata in contraddizione con sé stessa? Solo una cosa è certa: se ci sarà un «terzo avvento», un album o un’ulteriore reunion, sicuramente sarà in grande stile, come del resto ci hanno sempre abituato, nel bene o nel male.
Nel frattempo, lo scorso primo febbraio tra le novità discografiche è tornato a farsi vedere il nome di Ian Brown, con Ripples, il suo settimo lavoro da solista. Dieci canzoni in cui si occupa di suonare tutti gli strumenti in autonomia, facendosi aiutare soltanto dai figli che, negli anni d’oro di Madchester, neppure erano nati. Un album intimo e confidenziale, che restituisce un ritratto di King Monkey ben diverso da quello di trent’anni fa, finalmente cresciuto e maturo. La nostalgia, in effetti, non è mai stata di casa dalle parti di Brown. Ed è lui stesso a confermarcelo, nella quinta, dilatatissima traccia del disco, From Chaos to Harmony: «Tutto ciò che è, è sempre stato e sempre sarà. Dal caos all’armonia, io sono ancora qui, a cantare la mia canzone…».

FUORI I DISCHI
The Stone Roses, The Stone Roses (1989); The Stone Roses, Second Coming (1994); Happy Mondays, Squirrel and G-Man 24 Hour Party People… (1987); Happy Mondays, Pills’n’Thrills and Bellyaches (1990); A Certain Ratio, Force (1987); Inspiral Carpets, Life (1990); The Durutti Column, Obey the Time (1990); 808 State, Newbuild (1988); Northside, Chicken Rhythms (1990); James, Strip Mine (1988); The Charlatans, Some Friendly (1990)