«You must move in order to know» (Ti devi muovere per poter conoscere). A ricordarcelo è William Forsythe, coreografo e sperimentatore di linguaggi tra i maggiori del nostro tempo, classe 1949. Artefice nei lontani anni Ottanta di affreschi coreografici postmoderni che hanno fatto storia come il poderoso Impressing the Czar, guida per vent’anni del Frankfurt Ballett e poi della Forsythe Company, autore di titoli formidabili in repertorio delle più prestigiose compagnie internazionali, Forsythe, tornato oggi in America, dalla sua casa nel Vermont, non smette di essere un faro di creatività.

DURANTE la pandemia ha sfornato online lo strepitoso The Barre Project – Blake Works 2, quattro ballerini alle prese con l’oggetto di sempre, la sbarra, musica del cantautore James Blake, una voracità nella relazione dinamica con il tempo e lo spazio che sfata qualsiasi pregiudizio sulla tecnica del balletto come attrezzatura d’antan.
Ma non è certamente solo il corpo come strumento del danzatore a continuare a incuriosire e stimolare l’artista. Da anni le riflessioni sulla relazione non scontata tra danza e coreografia hanno portato Forsythe a esplorare altro: «ridurre la coreografia a un singolo significato è non comprendere il più cruciale dei suoi meccanismi: resistere e riformare la sua definizione precedente». Nascono così negli anni ’90 i suoi primi Choreographic Objects, in risposta a una domanda essenziale: «È possibile per la coreografia generare espressioni autonome e accessibili dei suoi principi – oggetti coreografici appunto – senza il corpo?»
La sua più recente installazione, The Sense of Things, ha abitato per un mese il nuovo edificio del maggiore museo elvetico, la Kunsthaus di Zurigo. Primo intervento artistico presentato nello spazio museale ancora vuoto realizzato dallo studio di architettura di David Chipperfield, segnato da grandi aperture di vetro, luminose porte e infissi d’ottone, pavimenti in marmo bianco e legno di quercia.

L’INSTALLAZIONE è presentata da Forsythe come una «geografia percettiva», un «acoustic environment». Invita il visitatore a un percorso personale tra le sale legate una all’altra da una drammaturgia di suoni creata da otto gigantesche campane sconsacrate, recuperate da due parrocchie di Düsseldorf, e uscite dalla fonderia Rincker, una delle più antiche d’Europa.
Spiega la curatrice Mjriam Varadanis: «Il nuovo edificio della Kunsthaus era vuoto, ho pensato che sarebbe stato interessante coinvolgere un coreografo, ho scelto William Forsythe per la sua ampia concezione della coreografia, non per avere dei danzatori alla Kunsthaus, ma per pensare ai visitatori e all’architettura come principali performers dell’evento».
La scoperta degli spazi è guidata dalla percezione acustica: si sale la grande scalinata, il suono delle campane, sintonizzato in cicli compositivi di armonia e contrappunto ideati da Forsythe, porta il visitatore dentro l’architettura. «Penso al suono come a un propellente» spiega l’artista «qualcosa che muove le persone attraverso le stanze, come un vento che le spinge da dietro o come un magnete frontale che le attira», qualcosa che trasforma la priorità percettiva spostando l’attenzione al senso dell’udito, mentre il senso della vista resta di sfondo all’azione nello spazio.
Si gira tra le sale sospinti e attirati dal suono che a volte ci coglie d’improvviso, fortissimo, dissonante. In alcuni spazi la luce è sincrona al rintocco, facendosi d’un tratto abbagliante per poi affievolirsi lentamente come il suono, in altre è un’eco lontana nel buio, scurito dalle sagome delle campane, un’eco che ci richiama di nuovo altrove. Lo spettro di intensità è ampissimo.

UNA VISITA che è anche pensiero su ciò che l’oggetto in sé evoca. Varadanis: «Le campane suonano sempre in momenti importanti della vita, ma sono legate anche a storie buie: nella Seconda guerra mondiale centinaia di migliaia di campane sono state fuse e usate per fabbricare cannoni e altre armi. Un elemento storico presente in questo intervento artistico, come altre suggestioni che si propagano con il suono da una stanza all’altra». Un’esperienza legata al «senso delle cose» ci suggerisce il titolo dato da Forsythe all’installazione, perché, come riportato nella brochure di presentazione «There is nothing in the understanding, which was not before in the senses» (Johan Amos Comenius, 1592-1670, filosofo e educatore).