Ha iniziato come pittore, Francesco Barnabei, dalla scuola, al figurativo all’uso di diversi materiali, ha poi scoperto la passione per il cinema, realizzando una serie di documentari su personaggi dal carisma particolare, da Complimenti, che carattere sui caratteristi (Marisa Merlini, Tiberio Murgia, Gigi Reder, presentato al festival di Torino), I magnifici 5 sui generi del cinema italiano, il ritratto di Isabella Sandri in Una ragione in più, Due su Luca Patelal e Rosa Foschi, e numerosi altri lavori. Contemporaneamente come proiezionista decideva di entrare direttamente nel cuore della cerimonia del cinema, la sala di proiezione. E coglieva anche l’occasione per girare un film sui proiezionisti, L’Elefante occupa spazio presentato alla Festa di Roma nel 2010.

Ora, nel pieno dell’isolamento ha ideato The Romaner, una rivista che allude non senza ammirazione (e l’ironia che si addice alla città di Roma), al The New Yorker, un progetto che riunisce tutti i suoi interessi e che è già diventato un luogo dove si vuole accedere e che si desidera leggere e guardare (alcune illustrazioni le abbiamo scelte come copertine di Alias). Si potrebbe dire che è una specie di assemblea dove si incontrano personaggi della cultura romana e cosmopolita: li incontriamo nelle pagine con racconti e poesie, raramente ammessi nelle riviste, con i racconti biografici come quelli di Paola Squitieri che racconta il padre a puntate, con esperienze di lavoro non omologate come quella della produttrice Sarah Pennacchi (La leggenda di Tony Vilar) e aspetti tutti da scoprire dei nostri giovani attori.

«Ho iniziato nel periodo del lockdown, l’8-9 marzo, ci racconta Barnabei, era un progetto a cui pensavo da qualche anno, in tutto sono usciti finora dieci numeri quindi circa uno al mese, anche se l’idea era di farne uscire due al mese come il The New Yorker, ma dovendo fare tutto da solo con un tipografo non era possibile. Per adesso è online e sto cercando di farlo uscire in cartaceo, come ho fatto con il primo numero stampato in 150 copie, composto da due pagine e una copertina, con un mio pezzo su La giusta distanza di Carlo Mazzacurati, a cui alludeva il disegno del metro a cui ci si doveva mantenere. Con solo due pagine il costo di produzione era irrisorio, ma non si poteva neanche distribuire, l’ho inviato a quelli che mi hanno scritto. Ora The Romaner è su Facebook e presto ci sarà un sito.

Parlami di questa passione per il «The New Yorker»
Questa rivista ha la particolarità di far collaborare grandi artisti per le copertine che sono già degli editoriali che non hanno bisogno di parole. In un libro Sempé raccontava che si trovava ancora in Francia quando il direttore di allora gli disse: «quando hai un disegno che ti piace ce lo mandi e lo pubblichiamo». In più ci sono articoli di grande qualità, con illustrazioni interne che ne fanno un oggetto di gusto. Così mi sono detto: perché non ripercorrere esteticamente quella qualità che si trova raramente in una rivista? Infatti gli artisti, gli attori, i registi che ho contattato sono stati felici di far parte di un prodotto così curato.

Chi ha partecipato finora?
Anche scrittori come Franco Arminio, Guido Tortorella (La paura della coccinella). Patrizia Cavalli mi ha permesso di pubblicare delle poesie. E poi Angelo Orlando, Milena Mancini, Fabiana Sargentini, Stefania Casini, Elena Buryka, Mario Balsamo, Daniele Cini, Nina Di Majo, Simona Nobile, Gianfranco Pannone, Emanuela Rossi, Claudio Sestieri e se ne aggiungono sempre altri. Vengono tutti dal cinema, attori registi produttori sceneggiatori) Gelasio Gaetani d’Aragona Lovatelli, un umanista dallo sguardo poetico, cura la rubrica sul vino, Il consiglio di Gelasio.

Cosa si troverà nel prossimo numero?
A Gigi Proietti è dedicata la copertina, poi ci sarà un ricordo di Mimosa Campironi che ha scritto musiche anche per il Globe Theatre ed ora quelle per lo spettacolo Madame Tosca diretto da Daniele Costantino con Laura Morante e Mimosa Campironi. Ci sarà un racconto di Paola Minaccioni dal titolo Pane e frittata che inizia una serie di interventi sui primi ricordi al cinema. Si tratta della rubrica «Al cinema è meglio». Nell’impossibilità di accedere alle sale interverranno dopo Paola Minaccioni, un numero dopo l’altro Mario Balsamo, Daniele Cini, Elisabetta Pandimiglio e altri.

Tu avevi girato dei video legati alle proiezioni in sala
Quando nel 2017 facevo delle proiezioni all’Aquila avevo intervistato Arcopinto, Gregoretti, Vicari, Luchetti e anche spettatori comuni, sui loro ricordi di infanzia e di adolescenza. Mi piacerebbe proporre queste «pillole» alle sale o sul web o in tv. Per la nostra generazione è anche un fatto culturale: la sala è importante, altrimenti il messaggio è che tutto andrà visto sul web. La sala è una cosa «altra», è un valore da salvaguardare. Il rapporto con il pubblico è un’altra cosa. Anche senza arrivare al dibattito, andare al cinema è come andare a una festa, si coinvolgono i ristoratori intorno, tutto il quartiere, si portano i bambini, ci si ferma a mangiare…

Infatti per ora meglio fermarsi un po’ e omaggiare la sala cinematografica con alcuni brevi brani tratti dai racconti che, uno per ogni numero si potranno leggere si «The Romaner»

Al cinema è meglio

Elisabetta Pandimiglio
Quasi ogni sera, a chiudere le mie frenetiche giornate da ventenne, era una corsa lungo la via Appia verso il cinema Diana che oggi ha lasciato il posto alla libreria Feltrinelli. Sempre la stessa sala, anche perché con la tessera Aiace, il biglietto costava pochissime lire. E sempre la stessa compagnia, la persona con cui allora dividevo tutto: università, casa, progetti, passioni, ideali, battaglie, vita. Non sapevo ancora che il cinema sarebbe diventato il mio lavoro primario. Lui sì.
Rituale sbracarsi nei sedili neanche troppo comodi di quel luogo accogliente e familiare, il più delle volte semideserto, dove tutto passava in secondo piano per fare spazio a storie di altri. Il ritorno verso casa, a piedi, con calma, era scambiarsi sensazioni e idee su quello che avevamo appena lasciato. (da Diana)

Mario Balsamo
La prima sala cinematografica (o dovrei dire il mio vero reparto maternità?) l’ho sbirciata dal terrazzino della cucina di casa dei miei. Sei anni? Sette? Occhiate ininterrotte sul cortile interno dei palazzoni di Corso della Repubblica, a Latina (dove abitavo). Il cortile era occupato dall’enorme tetto in cemento del Supercinema, che d’estate, quando ancora si fumava nei cinema (e il caldo si appiccicava al fumo, e il fumo e il caldo ai corpi), si apriva. Così attraverso la ringhiera, io (spaventato, accecato, rapito) vedevo i film, ma in una ri-edizione apposta per me: solo nella loro fettina superiore, nella striscia alta di uno schermo panoramico grande grande! L’audio invece c’era tutto, pompato di rimbombi e di quel tocco cavernoso che mi fece collocare definitivamente il cinema nell’antro della magia. (da La prima sala)

Fabiana Sargentini
La proiezione più sconvolgente per me (ancora più della prima in assoluto) fu alla sala Nuovo Sacher, creata e gestita da Nanni Moretti nel cuore di Trastevere. Preda di un furore incendiario avevo girato di nascosto a casa del mio ex di cui avevo ancora le chiavi: risultato un cortometraggio-lettera d’amore dai colori sgargianti accompagnato dalla mia voce fuori campo che dichiara lo sgomento per una separazione indesiderata. Il giorno della scadenza per partecipare al terzo Sacher festival, rassegna di cortometraggi inventata da Moretti, portai Se perdo te alla casa di produzione Sacher, vicino alla Piramide. Consegnai a mano un pacchettino contenente la videocassetta, accolta gentilmente da collaboratori così solerti dal farmi notare che non avevo appuntato da nessuna parte dei miei riferimenti, un numero di telefono. (da Buio in sala)

Nina Di Majo
Sono emozionata, il film inizia tra poco.
Il cinema per me, penso a luci spente, è un sangue nuovo, materia inesplorata, una finestra sul mondo, una cornice in cui proiettare, un personaggio in cui immedesimarmi, una vera rivoluzione che avviene sia a livello dei soggetti che a quello dello stile, il cinema è ciò che il cinema vuole dire al mondo, al di là dello stile, penso. E poi penso che la forma, lo stile, il montaggio, il linguaggio fotografico del cinema è la sostanza del cinema, la sua magia è la sua forma…Il film è tristissimo. Il disfacimento di Veronika vi è analizzato da Fassbinder con elegante distacco. Tuttavia egli sembra qualche motivazione di quel fatale morire, fin dalle prime sequenze del film. Veronika, come Maria Braun, Petra Von Kant e Lili Marleen e le altre figure femminili di Fassbinder sembrano l’ emblema del sentire del regista anche lui finito suicida. Il cinema è come un sogno,può essere bello o brutto, a volte fa sanguinare. (da Sono quasi le sette)

Paola Minaccioni
«Che vuoi tu, pane e frittata, pane prosciutto e mozzarella o la pizza rossa?»
Sceglievo sempre pane e frittata. Quando andavo al cinema durante le vacanze estive che trascorrevo con la mia famiglia a Ronciglione in provincia di Viterbo, era d’obbligo la merenda. Anche se la proiezione del film era programmata alle tre e mezza del pomeriggio e avevamo in sostanza finito da mezz’ora di pranzare, io mia sorella e le mie cugine partivamo da casa a piedi brandendo gelosamente la nostra merenda. Era il rancio, era la copertina di Linus. Chissà andando al cinema saremmo anche potute morire di fame. Era calda la frittata e anche il pane, quello buono cotto a legna, il filone di grano duro del migliore forno di Ronciglione.
Sono stata tante volte al cinema da piccola, con i miei genitori, ma riflettendo sull’importanza delle sale cinematografiche mi vengono in mente queste passeggiate mano nella mano con le mie cuginette e mia sorella. Avremmo assistito da sole a uno spettacolo da grandi. Ricordo la salita di Montecavallo in cima alla quale sulla sinistra si apriva il portone con cui si accedeva prima a un cortile e poi alla vera e propria sala cinematografica. L’insegna era talmente piccola che la parola CINEMA non entrava. Era divisa in due CINE-MA . (da Pane e frittata)

Daniele Cini
Non si tratta di un cineclub, è un vero cinema, sempre pieno di spettatori. Che meraviglia allungarsi sulle poltrone e rimanere un’ora e mezzo risucchiato intutte quelle emozioni a colori (i due canali della televisione sono in bianco e nero), nei dialoghi straordinari (come fanno a parlare così bene ed essere sempre interessanti o divertentissimi?) nelle storie mozzafiato, nelle inquadrature magnetizzanti.
Senza contare che su quelle poltrone può accadere di allungare un braccio e di comunicare nel buio alla ragazzina per la quale si ha una cotta, qualcosa che non si avrebbe mai il coraggio di dire a voce.
L’ho fatto a Ladri di biciclette, senza ottenere alcuna risposta.
Impietrita, la ragazzina ha continuato a guardare fisso il bambino che urlava dietro al padre portato via dai carabinieri e forse, mentre io tendevo il braccio sullo schienale, stava piangendo. Mi sono sentito cinico e volgare. Mi è toccato anche rivedere il film perché non avevo seguito granché la trama. (da In sala a 13 anni)

Francesco Cenni
E comunque il bello dei cinema di seconda visione che frequentavo con mia madre nell’epoca d’oro in cui ero un cinefilo alle prime armi rincoglionito dalla Reaganomics e dal sogno americano in stile Rocky Balboa, era che in sala ci potevi entrare a spettacolo iniziato… io e la mamma fra l’altro eravamo sempre puntualissimi nell’arrivare in ritardo di venti-trenta minuti, a proiezione inesorabilmente avviata. Poco male comunque, visto che l’inizio lo potevi recuperare nello spettacolo successivo (non come nelle sale da un’unica visione di oggi, dove all’accensione delle luci ti buttano fuori perché ci sono i posti numerati)… e infatti tutti i film della mia infanzia iniziarono tronchi, più o meno all’inizio del secondo atto. Ma una pratica del genere non può che aumentare la tua intelligenza narrativa. (da L’arcana, dimenticata bellezza delle sale di seconda visione)