Era il 1979. Bruce Springsteen aveva trent’anni, il «Boss» tutto bandana e bicipiti di «Born in the Usa» doveva ancora venire. Ma a suon di sudore e concerti infiniti, Springsteen e la E Street Band erano arrivati quasi in cima.

«Born to Run» e «Darkness» li avevano catapultati ai primi posti del kolossal americano chiamato rock n’ roll. In quell’anno la ribellione dei Settanta era al crepuscolo e Springsteen aveva l’età in cui la linea d’ombra tra giovinezza e maturità inizia a sfilare all’orizzonte. Il tour del 1978 lo aveva posto al centro della scena.

E la politica «reale» cominciava a fare capolino tra quei cofani di auto lanciate verso il futuro e il demi monde del Jersey Shore dei primi dischi. L’incubo nucleare era lì (ed è lì ancora oggi, nonostante Fukushima e l’intesa con l’Iran).

«The River è il primo disco in cui comincio a parlare di matrimonio, lavoro e famiglia», dirà Bruce tanti anni dopo. Non un disco intimistico, tutt’altro, anzi mai fino a quel momento così rock n’roll, elettrico e poco folk. Quattro facciate in cui a ballate intense si susseguono canzoni disimpegnate.

Oggi il racconto di quel giovane uomo in «mezzo al cammin della sua vita» esce in un «cofanetto» mostruoso («The ties that bind, the River collection», Columbia records dal 4 dicembre), con ben 4 cd, 3 dvd (tra cui un intero concerto dell’80 e un documentario firmato da Thom Zinny) più un librone da tavolo con 200 foto inedite.

Tanto materiale che non lascia nascosto nulla – paradiso, purgatorio e inferno – di quel delicato crocevia in cui lo smilzo artista di uno stato marginale degli Usa è diventato un simbolo, perfino un sex symbol, degli Ottanta.

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Dal punto di vista musicale (oltre a 22 inediti di quel periodo) è intrigante la scelta di pubblicare anche il disco singolo di «The River», mai uscito, prodotto appunto nel 1979 subito dopo «Darkness» ma scartato in favore del doppio «ufficiale» che uscirà poi l’anno seguente. «Le canzoni non avevano il tipo di unità e intensità concettuali che richiedevo alla mia musica. Così tornammo in studio», dirà Springsteen in Songs.

Capire davvero perché qualcosa è uscito e qualcosa no, oggi, vista tutta la qualità, non ha molto senso.

Quel doppio disco fu un successo vero: «The River è stato il primo album del rocker del New Jersey ad arrivare in testa alle classifiche. Un successo tanto voluto quanto quasi fastidioso (infatti poco dopo seguirà «Nebraska», solo chitarra e armonica, registrato in eremitaggio, senza band).

Bruce Springsteen in studio in uno scatto d'epoca - photo Sony Music
Bruce Springsteen in studio in uno scatto d’epoca – photo Sony Music

Lo Springsteen cantore della «working class» e dei reduci del Vietnam prende sostanza nei solchi di queste tracce.

Ma accanto alle angosce individualistiche e ai desideri di fuga (e redenzione) degli inizi inizia a farsi strada un po’ di leggerezza, basti pensare a una canzone come «Hungry heart» che ancora oggi scuote molti finali dei concerti del Boss.

«The River unisce la poetica di Blonde on blonde e la forza tutta nervi di Exile on Main St.», sintetizza efficacemente Ermanno Labianca nel suo libro Talk about a dream.

All’alba dei reaganiani anni Ottanta, in questo disco fanno capolino spunti libertari anni Sessanta e divertimenti orecchiabili tipici del decennio in arrivo.

In filigrana, col senno del poi, non è difficile vedere tra queste tracce quell’equilibrio magico tra politica e rock che sarà «Born in the Usa» cinque anni più tardi, capace di trasmettere a un pubblico mainstream mondiale – non senza equivoci – tutte le sfumature di un musicista americano purosangue ma proprio per questo sempre radicalmente «contro» i falsi miti d’America.