Un’operazione come The Red Lion – lo spettacolo presentato il 15 e 16 luglio nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia 2020 – è la conferma (in positivo) che da sempre paradossalmente l’Italia pallonara e tifosa non ha un grande feeling con la narrazione calcistica e infatti (a differenza dell’Inghilterra) i film, i testi teatrali, i romanzi sul calcio o di semplice ambientazione calcistica si contano sulla punta delle dita (il meglio in campo cinematografico bisogna andarselo a cercare nelle varie parodie di serie B degli anni ’60 e ’70 e in alcune commedie degli ’80). E anche stavolta per parlare del calcio dilettantistico, il regista Marcello Cotugno e i coproduttori Teatri Uniti e La Pirandelliana si sono rivolti a una pièce del drammaturgo inglese Patrick Marber tradotta da Marco Casazza e adattata in napoletano dallo scrittore Andrej Longo. Si perché l’ambientazione della vicenda raccontata da Marber è stata spostata dalla provincia inglese a quella campana. E una volta tanto il cambiamento non scaturisce dalla tendenza a una napoletanizzazione forzata e autoreferenziale ma mira più che altro a rendere più evidente l’universalità dei temi trattati e ad annullare la distanza che spesso distorce la percezione e la lettura dei testi anglosassoni.

The Red Lion (lontanamente ispirato a un’esperienza diretta di Marber con una squadra di provincia inglese, che il drammaturgo ha contribuito a salvare dalla bancarotta tramite l’azionariato popolare), analizza con ironia e spietatezza il mondo pieno di contraddizioni e ambizioni del calcio dilettantistico, illuminato/ oscurato dalla chimera delle giovani promesse di essere lanciate nel paradiso del professionismo, intorno alle quali si muovono presidenti, allenatori, dirigenti e agenti che cercano di trarre profitto dalle loro capacità.

Riflessioni
Ma non parla solo di calcio, è anche una riflessione amara e profonda sulla lealtà e il senso di appartenenza e Marber ci invita, attraverso un argomento cross-generazionale e di immediata ricezione, a riflettere sulla perdita di valori che oggi riguarda tanti altri contesti del contemporaneo. E il regista Cotugno, autore anche della colonna sonora, col supporto di efficaci scenografie e taglienti luci significanti, ha dato alla trasposizione il doppio senso di adesione all’essenza universale del testo originale che punta il dito contro la corsa ai guadagni iperbolici che ha contribuito a far mettere da parte il senso profondo e a volte quasi eroico dello sport e di rivendicazione al tempo stesso di uno specifica realtà calcistica italiana, che evidenzia una profonda differenza culturale tra l’Italia e l’Inghilterra, al di là della passione sfrenata per il calcio che lega i due paesi. Perché non c’è paragone tra di loro sia in termini di attenzione per le serie minori, sia di strutture adeguate per le piccole squadre dilettantistiche della provincia e non ultimo di interesse e sensibilità del tifoso medio catturato dai supereroi della domenica superpagati verso le condizioni e il trattamento dei tanti oscuri «lavoratori del pallone».

E quindi qui si vuole scuotere lo spettatore, tifoso o meno, con un’identificazione straniante, svelando con una messinscena semplice ma anche simbolica il lato oscuro del mondo dorato del pallone, un mondo nascosto di sacrifici, soprusi, illusioni, intrighi, la tentazione del doping. Il giovane talento, Palmiero, vittima di un incidente familiare, decide, per continuare a giocare e a sperare, di iniettarsi nel ginocchio massicce dosi di anabolizzanti. Intorno a lui si muovono altri due personaggi: l’allenatore Rosario e l’anziano factotum della squadra Gaetano che, ignari del problema del ragazzo, cercano di trarre profitto dalle sue capacità. Ed è proprio nel rapporto fra i tre personaggi che il testo di Marber alterna il lirismo di certi passaggi con il linguaggio a tratti violento e con l’avidità e la mediocrità che aleggia nello spogliatoio dove si svolge l’intera pièce. Si dà voce alle anime perse che, tra un calcio e l’altro, si confrontano e si scontrano nel logoro e affascinante backstage di un campetto malridotto di provincia, incarnando amaramente sogni e sconfitte di tutti noi.

L’uomo in più
I tre protagonisti sono interpretati da due consumati attori napoletani come Nello Mascia e Andrea Renzi, affiancati dal giovane Lorenzo Scalzo nel ruolo del calciatore. E la coppia non può non richiamare un altro film, anche questo di ambientazione parzialmente calcistica, del quale furono protagonisti esattamente 20 anni fa. Una coincidenza che è anche un prezioso pretesto per comparare The Red Lion e L’uomo in più, il folgorante film d’esordio di Paolo Sorrentino, che però attingeva a un soggetto e a una sceneggiatura dello stesso regista. Un prodotto autoctono, dunque, che dimostra che quando ci sono il talento e una strategia espressiva chiara, anche noi siamo in grado di riflettere sul calcio.

Si tratta delle vite parallele nella Napoli anni ’80 di due Antonio Pisapia: il più vecchio Tony è un cantante di successo, l’altro è un calciatore di serie A che vorrebbe diventare allenatore, uno stopper integro che non si presta ai trucchi del calcio scommesse. Entrambi, ricchi e famosi, cadono in disgrazia, cercano di rialzarsi, poi precipitano in un abisso definitivo. Gli incroci e le analogie casuali tra il film e la pièce sono intriganti: Renzi interpreta un calciatore (per il quale Sorrentino si è ispirato a Di Bartolomei) che sogna di fare l’allenatore che è diventato nello spettacolo; Mascia che in The Red Lion è un tuttofare della squadra, ne L’uomo in più è un allenatore soprannominato il «Molosso» ispirato a Bruno Pesaola, trainer del Napoli. Insomma ambedue le storie sono veicolo di uno sguardo critico sull’ambiente del calcio ma per Sorrentino una Napoli spietata e cinica è uno scenario imprescindibile per un approccio fenomenologico amaro e non predicatorio, mentre per Cotugno i campi della provincia sono tutt’uno con una riflessione ontologica.