Si sa che il doping è una storia del passato e di un personaggio del passato, Lance Armstrong, racconta il film di Stephen Frears, cancellato dal mondo del ciclismo dopo aver vinto sette Tour de France dal 1999 al 2005. Film biografico e insieme di giornalismo investigativo, si basa sul libro di David Walsh, giornalista sportivo del Sunday Times che, insospettito, comincia a indagare sull’assunzione di doping da parte del ciclista e di tutta la sua squadra (la Us Postal), ostacolato dal direttore per mancanza di prove certe, ma infine coglie nel segno.

Prima di Armstrong (e LeMond) il ciclismo americano si era fatto notare per alcune stravaganze storiche di inizio secolo come «le più massacranti competizioni del mondo», maratone, percorsi infiniti alla «Non si uccidono così anche i cavalli?», come «L’Americaine» una tre giorni che si tenne nel 1829 al Madison Square Garden di New York. Fino agli inizi degli anni ottanta il ciclismo negli Usa non era tenuto in grande considerazione, nelle riviste specializzate cominciavano a comparire come curiosità gli stravaganti assemblaggi, le fantasiose biciclette che costruivano. Contemporaneamente nel 1979 Peter Yates gira All American Boys dove un ragazzino fa saltare i nervi al padre con la sua mania per i ciclisti italiani (che si dimostrano delle vere carogne in corsa) e un po’ di anni dopo nel 1985 ecco Kevin Costner interpretare in American Flyers (Il vincitore) di John Badham un promettente ciclista che, diventato medico sportivo aiuta il fratello a diventare un campione, veicolando nel film le caratteristiche tecniche dello sport, come le tattiche per pianificare la vittoria o il calcolo dei punteggi.

Ma anche qui aleggia la mitologia della corsa impossibile, compare la «Hell of the West», la più infernale gara che giunge in cima alle Montagne rocciose. Dall’81 al ’94 il ciclismo americano si chiamava Greg LeMond, il californiano vincitore di tre Tour e due campionatoi del mondo. Nell’89 e nel ’90 Lance Armstrong che si era fatto notare come nuotatore, vinceva il titolo di triathlon e non c’era bisogno di Ferrari per notare che il suo fisico non era proprio quello tipico del ciclista, più adatto alle brevi corse a tappe. Professionista dal ’92, campione del mondo nel ’93, è colpito dal tumore nel ’96 e riesce a guarire. Il film mostra come il suo fisico si sia trasformato, finalmente adatto alle corse e alle tecniche farmacologiche (è anche l’epoca del cyborg), e l’aver dato vita a una Fondazione per il malati di cancro si rivela una notevole trovata pubblicitaria. Il film mette soprattutto in evidenza la sua fame di vittoria, disposto a tutto per vincere. Sua madre gli ha insegnato a non mollare mai, dice. Ma la domanda chiave è: preferisci tua madre o la bicicletta? La risposta è tutta nel film.

In The Program torna l’italiano cattivo, una figura connotata come un Mefistofele che adocchia Faust e lo rende succube, il dottor Ferrari (che ha appena annunciato di voler bloccare il film in Italia poiché dichiara di non aver mai somministrato sostanze dopanti al ciclista). Nella sua figura convergono «la mafia» del doping e una vaga aura di cattolicesimo luciferino («Ho avuto una visione paradisiaca come quando Dio parlò a Paolo. Lacrima Christi!» L’appassionato esperto di chimica dagli occhiali che nascondono lo sguardo è figura centrale nel programma, basta sapere come fare, un po’ come era ai tempi di Coppi. Basta soprattutto non fare i dilettanti e non farsi beccare. Grande assente dal film è il ciclismo che non è l’uomo solo al comando, ma carovana, squadre, storie.