Una grande casa nel mezzo della frontiera, due fratelli allevatori, le mandrie, la natura, i cow boy: il tempo sembra essersi fermato tra uomini e cavalli fino a quando un’automobile non attraversa l’orizzonte. Metà anni Venti, Montana, quegli interni cupi di legno e teste di cervo appese alle pareti sono parte di un paesaggio «letterario» come i maschi rudi e sporchi che ridono, bevono, fanno sesso nei saloon di antica memoria con le puttane: una volta sul tavolo ci saltavano i cavalli, racconta Phil coltivando un passato già leggendario di «vero» machismo che persino un bagno caldo minaccia. Lui infatti non si lava mai. A differenza del fratello George, detto «panzone», gentile e sempre in giacca e camicia (Jesse Plemons) che passa ore immerso nella vasca e non solo la domenica. Phil (Benedict Cumberbatch) è invece rude, capo carismatico dei ragazzi che lavorano al ranch con le sue storie e quello sguardo capace di cogliere l’invisibile che gli ha trasmesso l’amico e mentore Bronco Henry, figura straordinaria di cui coltiva la memoria con devozione.

Finché in questo paesaggio non arriva una minaccia, una donna, non una nuova cuoca o cameriera bensì la moglie che George ha sposato in segreto tradendo il loro patto, la loro fratellanza. Rose (Kirsten Dunst) è la padrona di un ristorante in paese per bovari che lei arreda sfoggiando vezzi da lusso cittadino con tovaglia bianca e fiori di carta sui tavoli. È vedova, il marito si è impiccato, e ha un figlio, bello, e ambiguamente fragile, la sua ostentata «femminilità» per i cowboy è quasi una provocazione, gli urlano «femminuccia», «frocetto», Phil specialmente per il quale la virilità è qualcosa da affermare in ogni gesto. Ma Peter, questo il nome del ragazzo (Kodi Smit Mc-Phee) è davvero così timoroso come credono?

IN QUESTA geografia umana Jane Campion ripercorre i miti western per sorprenderne la narrazione affidandosi a una scrittura precisa, ironica, di profondità. Il punto di partenza per The Power of the Dog – produzione Netflix, in concorso, sulla piattaforma dall’1 dicembre – è il romanzo omonimo di Thomas Savage, pubblicato nel 1967 e definito da molta critica «un western della complessità». Nelle note sui materiali stampa Campion scrive di esserne rimasta «affascinata» e anche che non pensava mai di farne un film visti «i tanti personaggi e temi maschili». Che la storia sia sulla rappresentazione della mascolinità a se stessa è dichiarato subito, la regista (sua la sceneggiatura) non è però autrice da semplificazioni, ai binomi in contrappunto – buoni/cattivi, giusto/sbagliato – predilige le sfumature, i non detti, le zone in ombra delle emozioni che illuminano quanto c’è oltre le apparenze – la lezione che il povero Phil non aveva capito dal suo amico Bronco Henry.

Quando Rose arriva al ranch la guerra dell’uomo contro la sposa bionda e raffinata del fratello è già cominciata. Lui non crede alle sue belle maniere ostentate, ai vestiti eleganti, alle tazzine da the e alla tavola apparecchiata: Rose che nelle parole del fratello innamorato suona il pianoforte tanto da comprargliene uno a coda, per Phil «strimpella» appena, un motivetto serve per umiliarla, tormentarla, renderla folle al punto che la donna inizia a bere fino a devastarsi.

LE COSE peggiorano quando in estate arriva il giovane Peter; porta i jeans a vita alta e un cappello da Norma Desmond versione cow boy. Gli uomini sghignazzano, Phil lo osserva, manifesta disprezzo anche se in quel ragazzo silenzioso qualcosa lo spiazza. È indifeso? Forse, ma da bravo studente di medicina ha messo già da parte le emozioni, e seziona freddamente coniglietti soffici per fare pratica col bisturi. Pure Phil scuoia ossessivamente il bestiame quasi che mettendo a nudo gli animali protegga se stesso. Campion sposta la tensione della minaccia in un’atmosfera rarefatta; non succede nulla, è già successo tutto nei gesti, negli sguardi, nella disposizione dei corpi nello spazio.
È il teatro dei suoi personaggi che sembra interessarla, quella crepa tra l’evidenza e quanto essa cela: l’erotismo represso dei maschi, la frustrazione, la solitudine.

È il desiderio il terreno della sua azione in una danza delle apparenze di cui è partecipe anche la «verità» di Phil; omofobo, crudele, sprezzante ha indossato l’abito del bifolco per paura di se stesso, del suo desiderio omosessuale inconfessabile alla società. Proprio come per piacere a chi conta Rose, suo fratello, i genitori hanno messo quello della borghesia – il momento in cui Rose gioca a tennis col figlio al ranch è sublime quasi quanto la castrazione che fa Phil ai vitelli. Ma la «forza», contrariamente a quanto l’uomo si dice, non è fatta semplicemente di muscoli, è questione di calcolo, di emozioni, di precisione chirurgica nel dissezionare i sentimenti.

LA SFIDA della seduzione che Campion raccoglie sin dai tempi di Lezioni di piano e di cui sa rendere il respiro sullo schermo nei dettagli, un fremito di cavalli, una porzione di cielo, il fumo della sigaretta, lo sguardo chiaro del ragazzino la cui consapevolezza è già potere e sottile indifferenza. Nel suo quartetto Campion sorprende il mito, la sua codificazione i suoi rovesciamenti, a partire dalla scelta del centro che per lei è Phil, il personaggio di cui toglie a poco a poco le stratificazioni rivelandone l’inadeguatezza nella relazione con ogni altro e col mondo; non si tratta nel suo cinema di giudicare o di stigmatizzare, nel groviglio doloroso che è la crudeltà impotente dell’uomo c’è molto del nostro tempo, al di là del gender, uno stato di cui Campion coglie l’universalità nella violenza e nel dolore, in una furiosa debolezza, materia manipolabile per chi sa intuirla.