L’ultimo film di Spielberg è una sorta di prequel diTutti gli uomini del presidente che quarant’anni fa aveva raccontato l’inchiesta Watergate.

Gli eventi di The Post precedono di un paio d’anni lo scoop di Bob Woodward e Carl Bernstein, ma ruotano anch’essi attorno alla stessa redazione del Washington Post. Siamo nel 1971 e un analista della Rand corporation, Daniel Ellsberg, ha trafugato un rapporto riservato, noto come Pentagon Papers, che mette nero su bianco come i governi americani, da Kennedy a Nixon, consideravano sin dall’inizio la guerra in Vietnam una causa persa ma hanno comunque sacrificato 50000 vite americane e (milioni di vietnamite) per cinico calcolo geopolitico.

Una rivelazione esplosiva sullo sfondo di un paese dilaniato dalla contestazione e dalla crisi politica. Ellsberg fornisce i documenti al New York Times ma la pubblicazione viene bloccata dal governo Nixon.

Sarà invece il Washington Post a sfidare il presidente e pubblicare il carteggio segnando una (tuttora celebrata) vittoria della libertà di stampa sull’abuso di potere. La recitazione corale che Spielberg fa della vicenda sarebbe ammontata a celebratoria agiografia ma nel contesto dell’attuale scontro ontologico su informazione, fake news e «post-fattualità» trumpista, The Post si carica di riflessi politici.

Abbiamo incontrato il regista a Los Angeles.

Il suo film ha un happy ending che prefigura la vittoria della società civile su Nixon con Watergate. Ma Trump sembra mettere in atto con maggior profitto quelle lezioni su ostruzione della democrazia e abuso del potere…

Era proprio questo infatti il momento per raccontare questa storia, perché la sceneggiatura, come si dice in gergo giornalistico, era fresca di stampa. Appena l’ho letta mi sono detto ‘mio dio, quello che è successo nel 1971 si sta ripetendo uguale oggi’. In quel copione c’era tutto: insabbiamenti, segretezza, ostruzione di giustizia, travisamento della verità, un presidente paranoico… ho chiamato Tom Hanks e Meryl Streep e gli ho detto che dovevamo prendere la palla al balzo, non potevamo aspettare un anno o due. È adesso che l’argomento è scottante.

Ma si potrebbe dire che intanto nella reltà hanno vinto i cattivi…i nixoniani…

Il pendolo politico si alterna in lunghe fasi e le parabole che descrive non sempre sono aggraziate. Ciò che è avvenuto allora in un certo senso era inevitabilmente destinato a ripetersi. Ma anche stavolta vi sarà una correzione, inevitabilmente. Credo che occorra adottare una prospettiva lunga e guardare al futuro sapendo che il pendolo tornerà indietro e i «buoni» riusciranno anche stavolta a tirar fuori le verità.

Nel film c’è un gusto quasi tattile per il giornalismo «analogico», la carta le rotative, l’odore dell’inchiostro…

Si, ma quello che spero davvero è che il film mostri alla gente il duro lavoro che comporta scoprire e stampare la verità. Conta più questo che non tornare alla carta stampata, che come noto sta diventando un antichità di fronte al digitale. Ma la verità non sarà mai un antiquariato, non può passare di moda.

Quale fu, allora, il significato di pubblicare le« Pentagon Papers»?

Di certo contribuì ad alimentare le proteste già in corso sui campus di mezza America. Le manifestazioni si sono moltiplicate dopo la pubblicazione, specie dopo che venne autorizzata dalla corte suprema. In definitiva credo che abbia anticipato la fine della guerra. Il caso rappresentò poi una presa di coscienza per tutta la stampa e per Katherine Graham, l’editrice del Washington Post. Se non fosse stato per l’esperienza dei Pentagon Papers, non sono certo che avrebbe poi autorizzato il direttore, Ben Bradlee a lanciare l’inchiesta su Watergate. Non avrebbero avuto il coraggio di andare fino in fondo contro Nixon.

È stato l’apice in un certo senso, un momento fulgido della stampa americana che oggi però sembra ben lontano…

Si, certo, i giornali sono in crisi. Una profonda crisi economica e non solo. Però credo che il fatto che il Washington Post sia stato rilevato da Jeff Bezos (capo della Amazon, ndr.) gli abbia regalato molti anni ancora di proficua attività.

Il contesto insomma per lei fodamentalmente non è cambiato?

Facendo il film ci è davvero sembrato che fosse una specie di specchio per riflettere il futuro. Ovviamente Nixon, e il suo concetto di «verità», la disinvoltura con cui la travisava, non può che essere di estrema attualità vista la situazione politica.

Considero questo un film patriottico. Non l’ho fatto in quanto democratico ma in quanto convinto dell’importanza di una libera stampa, del nostro primo emendamento ed il ruolo fondamentale del «quarto potere». E come sostenitore del giornalismo volevo cercare anche un antidoto a quell’orribile termine – le fake news– che oggi confondono sistematicamente vero e falso.

Gli eroi di questo film sono i giornalisti e sono eroi davvero. In quei giorni gli editori i direttori ed i redattori del Post e del New York Times furono capaci di una cosa straordinaria. Riuscirono coi Pentagon papers prima e poi con Watergate, ad essere davvero quel meccanismo di controllo sul potere, quasi quel quarto ramo dello stato, che oggi stenta ad emergere.

In un anno in cui abbiamo visto molti film riflettere un’atmosfera cupa, la sua risposta a Trump sembra ottimista …

Tutti conosciamo la forza che può avere il cinema, è quella di distillare qualcosa e renderlo comprensibile. I film possono prendere qualcosa di estremamente complesso politicamente e storicamente, e restituire la forte impressione di ciò che è avvenuto. Con The Post ho cercato di fare un film che non fosse nebuloso, che non rendesse difficile capire ciò che avvenne. E credo che sia il momento giusto per recepirlo in questo clima di attacco costante ai giornali e all’informazione: che esista un messaggio positivo riguardo il duro lavoro che fu necessario per scoprire la verità e il coraggio che ci volle per pubblicarla.

Oggi sembra sicuramente che molti non diano lo stesso valore alla verità

Io credo che tutti vogliano la verità. Ma c’è anche molta gente disposta a sentire solo ciò che vuol sentire. E se preferiscono qualcosa che non corrisponde al vero non vogliono sapere altro, sono disposti a credere ad ogni falsità, vi si aggrappano come ad un inno. E c’è altra gente che invece si rifiuta di accettare un’unica storia come risposta e cerca invece di guardarsi attorno, documentarsi.

È necessario farlo perché con la quantità di fake news e le accuse e disinformazione che oggi è intenzionalmente disseminata, chi tiene davvero alla verità deve andare a cercarla.

Da ragazzo credevo ai giornali come ai miei stessi genitori, ma oggi con internet e tutti i canali sociali c’è così tanto rumore di sottofondo, conflitto e contraddizione che bisogna faticare per capire. In questo senso c’è un abisso fra la mia esperienza e quella dei ragazzi che crescono oggi.

Una delle verità raccolte dal giornalismo quest’anno è stato lo scandalo degli abusi che ha travolto in particolare la sua industria…

Sì, e le vittime hanno trovato la loro voce in un certo senso come la protagonista del mio film, Katherine Graham, trovò la sua in un ambito diverso. Le donne hanno trovato la voce e mi sembra che l’orrore che tutti abbiamo scoperto in queste settimane abbia permesso alle vittime di superare la vergogna. Di liberarsi del peso di ciò che è stato perpetrato ai loro danni – che sia successo cinque minuti fa o quarant’anni fa – e trovare una piattaforma per esprimersi e spero che continuino a farlo.

Che consiglio darebbe a se stesso da giovane?

Probabilmente mi direi, «avrai davvero molto successo, quindi ti conviene prendertela un po’ più con calma, per diamine! Smetti di morderti le unghie perché tanto poi si aggiusta tutto. Smettila di preoccuparti».