Abbiamo incontrato Galder Gaztelu-Urrutia a Macao, in Cina, lo scorso dicembre. Durante l’intervista sua figlia stava leggendo un libro. A Hong Kong, a un’ora di traghetto da Macao, c’erano manifestazioni popolari che rischiavano di esplodere in violenza. Nel sottofondo, la politica di Trump, i gilet jaune, la Brexit e tutti i soliti, e meno soliti, problemi.

Ma c’era già un virus in circolazione, che avrebbe cambiato il nostro mondo in maniera del tutto inaspettata. E noi eravamo lì a parlare del suo primo lungometraggio, The Platform, un film horror, una satira, un esempio di fantascienza, una profezia.

Nel film un uomo, Goreng (Iván Massagué) si trova al quarantasettesimo livello di una prigione. Ogni cella ha un buco nel pavimento e ogni giorno un tavolo ricoperto di cibo viene abbassato e i detenuti di ogni livello si abbuffano prima che il tavolo continui la sua discesa verso il fondo.

È una cruda, ma allo stesso tempo potente metafora della nostra società. Quelli più in basso mangiano le briciole di quelli che si trovano ai livelli più alti. Ma ogni mese i detenuti vengono spostati a caso ad un altro livello.
«Sento che siamo tutti molto simili ma ci comportiamo diversamente perché siamo nati in situazioni diverse. La diversità è dovuta alla tua famiglia, ai soldi, all’educazione, alla scuola, e tutto ciò fa una grande differenza. Abbiamo messo il protagonista del film in situazioni molto diverse. Per un mese vive al nord, e il mese successivo al sud. A volte sembra ricco, altre volte povero».

«Mi sono sempre piaciuti film di questo genere», dice Gaztelu-Urrutia. «Il genere come l’horror è un ottimo mezzo per mandare messaggi. Forse questa volta, il messaggio si trova nel testo piuttosto che nel sottotesto».

The Platform sembra molto pertinente in questo periodo. «Il più grande problema di oggi è come condividiamo il patrimonio. È un problema che esiste da 500 anni ed esisterà per altri 500 anni. Questo film non è una critica soltanto di un sistema politico o economico, ma soprattutto dei nostri comportamenti individuali all’interno del nostro mondo. La pellicola non cambierà il mondo ma si propone di cambiare i nostri comportamenti. Se tu ti trovassi in questa situazione, come ti comporteresti? Cosa faresti se ti trovassi al livello 6? O al livello 200»?

Ma il motivo per i cambiamenti è tutto lasciato al caso: «L’amministrazione ti mette in un posto. Non importa se hai fatto del bene o del male. Non sai mai dove andrai a finire. L’unica risposta possibile potrebbe essere la solidarietà fra i detenuti, ma allo stesso tempo non volevamo dire che se uno fa la cosa giusta, sale automaticamente ad un livello più alto. Non c’è compenso o premio per essere buoni».

Il film propone un grande «e se»?,  ma non è più un’ipotesi astratta, com’era a dicembre, quando abbiamo incontrato Galder Gaztelu-Urrutia. Qui in Italia siamo a casa da fine febbraio, isolati dall’inizio di marzo. Gaztelu-Urrutia vive in Spagna, il paese più colpito dal Covid-19 dopo l’Italia. Tutti noi stiamo vivendo un incubo dovuto all’isolamento e all’ansia. I media ci fanno vedere come l’umanità reagisce in modi diversi. Ci sono quelli che lottano per la carta igienica e quelli che cantano dai terrazzi. Siamo al livello 6, ma chi lo sa? Forse arriveremo al livello 200.

Nel film, tutti i detenuti possono portare un oggetto nelle loro celle. Il nostro protagonista porta il romanzo nazionale Don Chisciotte invece la sua compagna di cella brandisce una spada samurai. Chiediamo a Gaztelu-Urrutia che cosa sceglierebbe: «A volte penso che sceglierei il libro, ma è più probabile che prenderei la spada. Ma se il libro fosse abbastanza pesante potrei comunque utilizzarlo come un’arma».

Il romanzo di Miguel de Cervantes è un’ispirazione fondamentale. «Era una delle prime idee nel film. La sceneggiatura era basata su un’opera teatrale mai messa in scena. Una commedia pazza, pazza, di David Desola e Pedro Rivero. Nel film a un certo punto ci sono due tipi nudi nella piscina per bambini: quelli sono loro. Gli scrittori. Come puoi immaginare sono complicati, ma li adoro».

Sopra, in una realtà completamente rimossa dalla prigione i cuochi preparano il cibo. Sembrano quasi degli dei. «Sono molto simbolici. Si può anche immaginare che non esistano. Forse sono solo i sogni dei prigionieri. È per questo che volevamo raffigurare la cucina in modo così strano. Potrebbe essere vera, ma potrebbe essere anche il sogno di un affamato. La mia ossessione quando ho iniziato il film era di evitare che il pubblico chiedesse: ‘Dov’è questo buco?’ (il titolo originale del film è El Hojo, Il buco, ndr). Il film poteva finire con una ragazza che scappava all’esterno e rivelare che ci troviamo in un altro pianeta, in un futuro tra 500 anni. Volevo che il pubblico fosse così immerso nella piattaforma da non pensare al mondo esterno. La cucina non è reale. Tutto è strano. Nulla dev’essere realistico».

Il cibo che i cuochi preparano è un banchetto sontuoso, che sembra preso da un finale di MasterChef. «Volevamo creare un’idealizzazione del cibo. Volevamo mostrare un’opulenza decadente. È completamente diverso dal resto della prigione. La prigione è grigia e geometrica e non molto umana. Invece il cibo è l’opposto. Il cibo è l’unica cosa colorata».

Ma anche il sangue ha un po’ di colore e il film non è per i pusillanimi. Nonostante un tono simile ad altri film dell’orrore come SawL’enigmista e Il Cubo, l’ispirazione di Gaztelu-Urrutia si trova più vicino a casa, in Spagna. «Il mio spunto principale è L’angelo sterminatore di Luis Buñuel».

Il capolavoro surreale del 1962 racconta una cena d’alta società che diventa un incubo quando gli ospiti scoprono che – senza nessun motivo – non possono andarsene. L’isolamento, il senso che la normalità della vita quotidiana sia finita, che una calamità stia testando i nostri valori fa parte di entrambi i film. Ma la sua missione di giustizia assomiglia ad un tentativo epico e sanguinoso del suddetto Chisciotte.

«Abbiamo girato una fine alternativa del film. Abbiamo girato tre finali in realtà, ma non ve li mostrerò mai». Insistiamo, ma lui resiste. «Forse fra un anno. Forse li metto su YouTube. Ma il messaggio era terribile». La nostra intervista è finita e facciamo una foto. Sua figlia prende il telefono per farla. È un momento di normalità, un sollievo dopo un’ora trascorsa a parlare di questo film brutale ma bellissimo.

«Si scende giù giù giù e non c’è tanta speranza. E allora abbiamo voluto aggiungere la speranza alla fine», dice Gaztelu-Urrutia. «La cosa più importante non è cambiare il mondo. Ma invece cambiare noi stessi. In questo si può forse riassumere il senso del nostro film, e anche il suo messaggio».