Il gusto un po’ naif di Charles Augustus Steen III è stata la pista di lancio per la vicenda musicale dei Pains of Being Pure at Heart che prende il nome, all’atto di nascita nel 2007, da un racconto scritto nel 1991 dal giovane canadese scrittore e ideatore di giochi di carte dal titolo omonimo traducibile in italiano con i dolori dell’essere un puro di cuore. Il poema semplice e lineare è la storia di Lukus Loo che per essere, per l’appunto, un puro di cuore si ritrova a condurre la vita da solo, canzonato dagli amici e sofferente fino alla morte. “Il nome della band – dice Kip Berman, voce e chitarra, anima originaria della formazione – è tratto da questo racconto breve scritto da Steen che conobbi quando vivevo a Portland nell’Oregon. C’è poco della storia in sé ma il titolo di quella storia sembrava che catturasse molto bene quell’aura di idealismo, e dei fallimenti che ne derivano inevitabilmente, che dà la misura della nostra musica degli inizi come di oggi”. Con questa dichiarazione di intenti il quartetto newyorkese negli anni mette in campo in tre album (The Pains of Being Pure at Heart, Slumberland 2009; Belong, Slumberland 2011; Days of Abandon, Yebo Music 2014) ed una manciata di ep il suo twee pop, impasto sentimentale di melodie delicate, orecchiabili che collocano certi risultati, soprattutto della loro ultima vicenda artistica, nell’alveo dello shoegaze che fu la scena di Manchester degli Ottanta. In questo senso nel loro ultimo album si percepisce più di un omaggio alla chitarra di Johnny Marr (The Smiths).

I testi che puntano ad un dichiarato coinvolgimento nella sfera emozionale posizionano la band ad un livello più elevato rispetto alla media dei proliferanti simili gruppi che rendono il lavoro dell’ascoltatore, esperto o profano che sia, particolarmente faticoso e talvolta anche frustrante di questi tempi. “Scrivo io le canzoni e i testi ma non mi sento il leader della band, ci sono cose come il synth o le parti di batteria che proprio non so come approcciare e qui entra in campo l’esperienza di Kurt (Feldman, batteria n.d.r.). La sua band The Ice Choir mi piace molto e penso che quell’esperienza lo ha aiutato a concepire alcune brillanti idee per Days of Abandon”.

La letteratura è un ambito molto presente nella storia musicale di Berman, i nomi di Leonard Cohen e Jonathan Richman sono i cantautori di riferimento da sempre e stanno a sottolineare proprio questo approccio.

Per Days of Abandon che i Pains si accingono a promozionare con una tournèe che toccherà il nostro paese in 4 appuntamenti (il primo a Chiusi stasera 14 giugno al Lars Rock Festival, domani al Radar Festival di Padova, il 16 al Traffic per il Roma Pop Fest e il 17 a Marina di Ravenna all’Hana-bi) il riferimento è ad Elena Ferrante, la scrittrice napoletana dall’identità anonima e al suo I giorni dell’Abbandono (in inglese Days of Abandonment) pubblicato nel 2002 e divenuto un caso letterario ben rappresentato anche al cinema grazie alla trasposizione che ne fece Roberto Faenza. “Il titolo è un omaggio al romanzo della Ferrante ma noi abbiamo preferito la parola “abandon” che in inglese ha un duplice significato. Può significare tanto la perdita, il rimanere indietro, l’assenza, ma può anche essere tradotta valorizzando il significato che pure conserva il termine di libertà assoluta, mancanza di inibizione, gioia sfrenata. Sono consapevole che entrambe queste idee sono molto presenti nelle tracce del nostro ultimo album. C’era anche un altro titolo in ballo Welcome to the Jangle (sic!)”.

Nel mucchio delle 10 canzoni peschiamo una delle migliori cantata da Jen Goma in stile Tracey Thorn, peregrinazioni su una storia d’amore nella fase di approccio e corteggiamento con evidenti venature darkwave: Hunt me with your blackened eyes,would you run to the end of the world? Cacciami con i tuoi occhi anneriti, vorresti correre fino alla fine del mondo? ‘Cuz I know you’re violent, and I know you’re true, and there’s a thousand lives you’d like to try but never do. But if you come with me, we could find just two. Perché lo so che sei violenta, e so anche che sei vera, e ci sono mille vite che vorresti provare ma lo non fare mai. Ma se tu vieni con me, ne possiamo trovare solo due. “Fin dall’inizio – continua Berman – i Pains per me hanno significato scrivere canzoni e suonarle con gli amici, il che è sempre meglio che suonarsele da solo nella propria camera. Registrare quest’album è stato particolarmente emozionante perché oltre ad Alex Naidus, basso e Kurt ho potuto lavorare con Jen Goma di A Sunny Day in Glasgow e Kelly Pratt (polistrumentista di Beirut, David Byrne & St. Vincent e Bright Moments n.d.r.). La prima volta che Jen ha cantato Kelly ho avuto i brividi. La conoscevo da A Sunny Day in Glasgow, avevamo suonato insieme per il terzo concerto in assoluto dei Pains nel mio salotto, è una band fantastica. La settimana successiva le detti Life After Life (altro titolo dell’ultimo album n.d.r.), ed è stata una rivelazione, nulla di paragonabile alla demo che avevo fatto con Kurt e molto di più di quello che avrei potuto fare da solo. Mi venne un’intuizione e così è stato. Kelly grazie a Jen è la mia canzone preferita del nostro ultimo album ma non mi piace sentirmi arrivato, penso che ci sia sempre la necessità di ottenere una canzone migliore, non mi sento mai soddisfatto, se provassi questa sensazione probabilmente sarei già morto, in senso musicale intendo. Però al momento sono sicuro che non ci sarà un altro album che uscirà nel 2014 che suonerà come Days of Abandon. Sono orgoglioso di sapere che riusciamo ad assumerci dei rischi per fare qualcosa di nuovo ogni volta che entriamo in sala di registrazione. Siamo felici di suonare i nostri pezzi più vecchi quando siamo in tour ma di sicuro non vogliamo fare dischi che suonano come i precedenti.”

La dimensione più intima, quasi da camera dell’ultimo nato dei Pains che secondo alcuni lo renderebbe una prova inferiore rispetto alle precedenti ha un’origine ben precisa: “Tempo fa ci capitò di suonare ad uno show a Tokyo, era il tour di Belong. Dopo il concerto partecipammo al party dove si esibiva un duo indie pop che suonava delle canzoni neo-acustic molto trascinanti. Il neo-acustic è il nome giapponese per cose come Aztec Camera, Flipper’s Guitar, Everything But the Girl. Eravamo in un bar che poteva contenere al massimo 40 persone e io pensai: abbiamo bisogno di tanti grandi amplificatori e roba del genere per dare senso alle nostre canzoni dal vivo ma quelle canzoni così come sono concepite non avrebbero lo stesso impatto qui. E se le canzoni pop non possono suonare altrettanto grandi per 20 o 40 persone come 200 o 400, allora c’è qualcosa che non va. È una trappola quella di pensare di fare ogni cosa più grande della precedente. Ho apprezzato le grandi chitarre “da centro commerciale rock” di Belong ma volevo che questo disco fosse potente in un modo diverso. Ci sono un sacco di grandi canzoni chitarristicamente parlando in Days Of Abandon. Eurydice è un anthem perfetto, una cosa che non mi è mai riuscita prima, Coral and Gold e Beautiful You sono davvero imponenti e fragili allo stesso tempo, una cosa che mi piace molto, sonico ed emotivo come i brani di Jen. Ma tutto il disco, a prescindere dal suono, è liricamente il più particolare che abbia mai composto. Se Belong è stato un album che appesantiva i suoni che nascevano leggeri, Days of Abandon è proprio il contrario, alleggerisce un suono più heavy, almeno per me. È sicuramente un album più vero per quello che riguarda gli ideali che mi hanno fatto venire voglia di fondare una band molti anni fa”.