Spesso ci si chiede quale sia l’elemento più importante nella creazione, ideazione e programmazione di gioco di ruolo, soprattutto quando si decide di codificarne le regole in un sistema interattivo, più comunemente detto videogioco. Nel momento del dibattito popolare sulle caratteristiche fondanti del GDR, un parte maggioritaria del pubblico generalmente sovrasta tutte le altre, urlando con orgoglio: «la scrittura!». E a ragione, tra l’altro.

Ma che cosa significa scrivere un gioco di ruolo? C’è la storia principale, che è quella a cui guardano tutti ma che, alla fine, occupa generalmente ben poco tempo di quello che complessivamente investiamo su un gioco simile. E allora forse i personaggi, che quelli sì, ci passiamo ore insieme. Eppure anche loro, tra run solitarie e sostituzioni in funzione delle quest, li cambiamo con facilità. Saranno dunque proprio le missioni, il loro design, a diventare la chiave di volta dell’esperienza? Ma no, perché quelle quest devono obbligatoriamente svolgersi in un mondo, quello sì, che diventa la base per qualsiasi ulteriore percorso di arricchimento e approfondimento narrativo.

È proprio da qui che bisogna partire, e Obsidian, quasi come fosse nel DNA dello studio, lo sa bene. Tanti sono passati da lì, con nomi eccelsi e indimenticabili, e tanti altri sono andati, ma tutti hanno lasciato qualcosa, un’evidente «Obsidian way» che traspare anche nelle opere meno tipiche dello studio.

È da queste premesse che nasce The Outer Worlds, ultima fatica dello studio californiano che racconta storie e vicende di una galassia lontana lontana, ma paradossalmente anche molto vicina a noi. In una sorta di far west in salsa spaziale, come oramai sembra andare di moda (The Mandalorian), Obsidian ci fa vestire i panni di personaggi che sceglieremo di plasmare sin dall’inizio, dovendo decidere se essere arcigni manager d’azienda o rivoluzionari sanguinari e idealisti. In un gioco che può durare dalle due alle decine di ore, a seconda della nostra partecipazioni al racconto, ci troveremo ad affrontare di tutto, tra creature mostruose e imprenditori senza scrupoli. E sarà nella qualità di questo colonialismo spaziale venato di umorismo e satira che matureremo la comprensione che forse l’insieme è migliore delle sue parti.

Infatti, quando analizzate brutalmente in comparti stagno, molte delle sue componenti superficiali non offrono una solidità narrativa sufficiente a garantire trasporto e coinvolgimento, ma è nel mondo di gioco e nella sua scrittura che il titolo Obisidian acquista valore con il passare delle ore, perché la coerenza strutturale dei suoi luoghi e delle sue culture riesce a sovrastare i problemi e i limiti tecnici e creativi. Come la maggior parte dei videogiochi odierni, anche la mappa, le missioni e i personaggi di Outer Worlds non riescono a reggere all’urto tra le necessità ludiche e le urgenze narrative, indebolendo alternativamente una delle due nel disperato tentativo di non renderle troppo pesanti per il giocatore: ad esempio, ci capiterà di trovarci di fronte a fazioni in guerra tra loro che distano poche centinaia di metri e ci chiedono di scoprire il segretissimo nascondiglio nemico.

Tutto quel che è mera tecnica ludica è indietro rispetto a qualche standard generale: il sistema di combattimento, i dettagli grafici, la vastità e l’ampiezza delle mappe. In sostanza, se non ci fosse il suo mondo, o meglio, la percezione del suo mondo creata dallo studio, The Outer Worlds sarebbe a tutti gli effetti un passaggio, una di quelle esperienze che si giocano perché capita di farlo, e che al giocatore lasciano meno della delusione, ossia l’indifferenza. E invece, con una solidità granitica nella visione complessiva, Obisidian ha messo in scena un mondo flagellato da un tumore sociale talmente vasto e potente da espandersi in giro per interi sistemi solari: il profitto.