Cosa tratterremo della 52a Mostra Internazionale del nuovo cinema di Pesaro, che chiude i battenti domani? Soprattutto la sensazione che «eppure qualcosa si muova», e non solo negli interstizi dove da sempre si trovano i lavori e l’aria più interessante, le sezioni e le proiezioni speciali che a Pesaro anche nei momenti più sonnolenti hanno garantito originalità e vitalità. È una mostra di maggiore qualità rispetto alle ultimissime edizioni, dove le perle si trovano anche in Piazza in prima serata e non solo alle 14 del pomeriggio al fresco di salette semi deserte e sperimentali.

Se quest’anno la qualità è merito delle scelte avvedute del Comitato Scientifico (Pedro Armocida, Bruno Torri, Laura Buffoni, Andrea Minuz, Mauro Santini, Boris Sollazzo, Gianmarco Torri) la vitalità e la partecipazione dell’evento è frutto anche di una contingenza molto pratica: l’anno due della mostra sotto la direzione Armocida si svolge a luglio, un po’ posticipata rispetto alla tradizione pesarese, ergo il grosso degli esami universitari è finito, gli studenti arrivano a frotte dalla torre d’avorio di Urbino ( si muovono anche loro, non sono figuranti del Duca, è magnifico!) e popolano per una volta, oltre che l’unica giuria del festival, la città, le sale, le piazze, gli eventi serali, e dove ci sono i ragazzi, piaccia o meno, c’è speranza e rivoluzione.

La ragione per cui la Mostra arriva in luglio è legata anche al fatto che a fine giugno la città lascia il posto ad altro evento cinematografico: il Festival dei documentari diretto da Luca Zingaretti, migrato anche lui in costa adriatica dallo scorso anno, che ha portato a Pesaro il cinema del reale con lavori dedicati soprattutto quest’anno a immigrazione e terrorismo e una vincitrice iraniana, Sona Moghaddam con Masoumeh una storia femminile di riappropriazione della vita e della maternità dopo che un attacco all’acido l’ha privata della vista.

La Mostra 2016 sembra risentire del fatto di essere stata preceduta da un festival di documentari, come se il loro linguaggio fosse rimasto ad aleggiare nell’aria, quasi un nuovo genius loci. Le trame più interessanti dei film in concorso infatti, come dei lavori d’avanguardia italiana della sezione Satellite, di quelli di Tariq Teguia (cui è dedicato l’omaggio della Mostra), del programma del Super8 (in questo caso è quasi scontato), delle proiezioni dei video di lotta, sono spesso colte direttamente dalla realtà.

Lo è certamente in The Ocean of Helena Lee, dello statunitense Jim Akin, che si racconta reincarnandosi nella giovane protagonista Moriah Blonna (una Scarlett Johanson prima maniera e senza il smaccato sex appeal) che cerca il senso della sua età preadolescente e del male di vivere che travolge entrambi i suoi genitori nelle onde di Venice beach, la spiaggia di Los Angeles già simulacro di Venezia, come dice il nome.

La Helena del titolo si muove con la grazia di una nereide tra le palme e i poliziotti a cavallo sulle dune mentre di lato le sfreccia una teoria di folli che davvero anima quei lidi e che il regista si è limitato a catturare: l’uomo col cartello «Fuck you», quello che vende il cartello che regge, l’altro che offre i castelli di sabbia, l’artista che fabbrica i Truffulalberi del Dr Seuss. Un delirio freak che non intacca la purezza della ragazza, quasi una decalcomania scontornata e appiccicata su uno sfondo che non le appartiene ma le si addice, intenta a dialogare con la madre scomparsa e riannodare le trame della vita sul suo taccuino di aspirante scrittrice. E al di là della sorte dei suoi (memorabile il padre alla deriva che fa surf in giacca e cravatta) l’acqua e la luce dell’oceano lasciano sentimenti di speranza, riscatto e consolazione, la percezione che per Helena, sommersa ma salvata, potrebbe esserci un finale migliore.

Migliori attori non protagonisti del film la musica (il californiano Akin è musicista e produttore musicale oltre che marito della cantautrice Maria McKee) e l’acqua, due elementi che curiosamente sembrano tornare nella Mostra 2016, come un altro fortissimo, quello della morte o meglio del suo superamento.
Temi questi che si rincorrono tutti nelle pure variegatissimo opere ospitate nel programma Satellite- Visioni per il Cinema Futuro, antologia di lavori diversi appunto per formato, tecnica e linguaggi selezionati da Santini e Torre con Anthony Ettorre e Annamaria Licciardello.

Lavori esemplari, non tutte anteprime, ma ognuno con qualcosa da dire e suscitare, come il disturbante Le 5 Avril je me tue di Sergio Canneto, diario di un suicida che prende le mosse da Pavese e Camus, o La tomba del tuffatore (mare/morte di nuovo) di Yan Cheng e Federico Frangioni, il Parco Invisibile di Davide Gatti (esplorato da un attore non vedente) e il Parco Lambro altra variazione sul tema documentario naturalistico dove il commento sonoro è decisivo, o ancora The eternal melancholy of the same di Teresa Masini, dove l’acqua e la luna che la governa scandiscono non si sa se l’attesa della fine o dell’inizio.