Poche note di pianoforte a rompere il silenzio. Ripetizioni ipnotiche, avvolgenti, cui pian piano si aggiungono gli altri strumenti. Poi la tensione che sale, si espande, aumenta il volume, moltiplica le stratificazioni sonore. Esplode, colpendo il corpo e la mente, lasciandoci a bocca aperta e recettori spalancati. È limitante descrivere a parole cosa accade durante un concerto di The Necks. Un suono così unico, peculiare, per la gran parte in acustico, sviluppato dal trio di Sydney in oltre trent’anni di musica insieme. «Quello che produciamo, il come ci mescoliamo insieme, come tutto questo suggerisca dei movimenti tra di noi, è qualcosa di molto organico, come modo di fare musica. Dopo le prime iterazioni, tutto ciò ha una grande influenza su quello che succede dopo, e dopo ancora», spiegano Chris Abrahams e Tony Buck, pianista e batterista che insieme al contrabbassista Llloyd Swanton fanno parte di una formazione che non è mai mutata in questi decenni, e che ancora oggi dimostra una coesione inossidabile.

«NOI SUONIAMO musica. Non la scriviamo e non ne parliamo. Quindi l’ascolto è una delle cose più importanti per noi. Ci motiva. Ma non si tratta di una cosa responsiva, necessariamente. Non è come sentire cosa uno di noi sta suonando e decidere coscientemente di fare qualcosa che vi sia legato. Non c’è niente di cosciente. Non c’è una decisione. È qualcosa di più profondo». La musica per The Necks, spiegano Abrahams e Buck: «significa suonare i nostri strumenti con una sorta di controllo e di gusto rispetto alle cose che stai facendo, ai dispositivi che stai utilizzando, al vocabolario di cui disponi. E al tuo paesaggio sonoro interiore. E tu costantemente rispondi a questo». Il gruppo australiano, capace negli anni di ritagliarsi lo status di cult band, torna spesso nel nostro paese, seguita da molti. La loro visita più recente è stata a Trento, per Transiti, la rassegna di musica sperimentale (curata da Alberto Campo) ospitata dal Teatro Sanbàpolis in collaborazione con il Centro Santa Chiara. Il genere suonato da The Necks è indefinibile, tra jazz, improvvisazione, ambient e un approccio che spesso li avvicina al noise.

IN CARRIERA hanno pubblicato una ventina di dischi, il 2019 è stato il trentesimo anniversario di Sex, l’esordio discografico, uno dei primi album al mondo pubblicato in cd, formato perfetto per i lunghi brani della band, spesso vicini ai cinquanta o sessanta minuti di durata, tra cui diversi dischi live e un paio di colonne sonore.
Freschi vincitori dell’Art music award, prestigioso riconoscimento musicale in patria, sono ammirati anche da molti colleghi e coinvolti in mille collaborazioni, tra cui una delle più interessanti è la partecipazione al nuovo disco degli Swans, la creatura di Michael Gira, cui The Necks hanno offerto il loro contributo di visionarietà onirica, lasciando emergere la propria personalità immensa. «Negli anni abbiamo avuto altri artisti come fan, con cui abbiamo fatto dei concerti o registrato. Queste collaborazioni ci hanno dato modo di avere più esposizione, abbiamo guadagnato in visibilità. Abbiamo appena vinto un premio. È bello essere apprezzati, riconosciuti, ma non so se per noi cambia davvero qualcosa. Manteniamo la stessa attitudine nel suonare musica insieme che avevamo fin dalla formazione della band. In un qualche senso, sento che noi suoniamo per la musica e basta. Se ci sono delle persone che ci accompagnano in questa cosa è fantastico, ma noi di sicuro non cambiamo il nostro stile per fare piacere o attirare un certo pubblico».