Un orticultore novantenne di Peoria, specializzato in un tipo particolare di gigli arancioni (Hemerocallis) che fioriscono e appassiscono nell’arco di un giorno, non è la prima cosa che viene in mente quando si pensa a Clint Eastwood. Ma «Clint», da sempre, modula le sue scelte e vira il suo personaggio con la precisione e la temeraria libertà del free jazz che ama tanto. Così The Mule, la sua trentasettesima regia, è un oggetto profondamente eastwoodiano –paradossi e metafore inclusi – che si riallaccia con dolce ironia e un’introspezione disarmante all’ultimo film in cui l’attore/regista ha diretto se stesso, Gran Torino, come questo sceneggiato da Nick Schenk.

ANCHE EARL STONE (Eastwood) è un veterano – Corea, dice la targa del suo scassatissimo pick up. Ma rispetto al misantropico, solitario, razzista vedovo Walt Kowalski, quando lo incontriamo (nel 2005) si presenta come un soave, spensierato farfallone, che sfoggia, insieme alle giacche pastello, un rudimentale spagnolo, scambiando battute politicamente scorrette con i suoi lavoranti latinos; fa commenti galanti alle anziane frequentatrici di una fiera orticola e paragona la ressa che si crea davanti al suo banchetto di piante di giglio a una distribuzione di Viagra gratuito.

Earl si crogiola come un gatto nel calore delle luci della sua ribalta floreale – accorgendosi di aver dimenticato il matrimonio della figlia (Alison Eastwood, non a caso) solo dopo aver pagato da bere a un intero wedding party di sconosciuti. Come William Munny negli Spietati questo è un uomo che ha parecchio di cui scusarsi con le donne della sua vita. Ma se le redenzione avvicina i due film (e Gran Torino), qui il tono è molto diverso –più leggero, spensierato, ma anche più malinconico e personale. Nella galleria dei personaggi eastwoodiani, Earl incorpora sfumature della stranezza (se non addirittura di ridicolo) del pugile con orangutan Philo Beddo in Filo da torcere e Fai come ti pare e dell’anacronismo di Bronco Billy.
I tempi cambiano molto in fretta anche in The Mule, che è ispirato a una storia vera, pubblicata sul «New York Times». Entro il 2017, Earl ha perso quasi tutti i clienti, superato dalle vendite online; la sua casa e l’adorato giardino sequestrati dalle banche.

Eastwood indossa con una dose extra di soddisfazione, e una sottigliezza sfuggita al politically correct della maggioranza dei critici Usa, i cliché del «vecchio maschio bianco» – fuori dai giochi, fuori dal tempo, borbottone, superficiale, godereccio, nemico delle burocrazia, di internet e dei telefonini, ma non insensibile al richiamo della libera impresa. Anche se la sua seconda chance arriva grazie al Cartello di Sinaloa. «Tutto quello che devi fare è guidare», gli dice l’ospite di una festa di fidanzamento della nipote (dove si è presentato solo perché è rimasto senza tetto), porgendogli un biglietto con un numero di telefono.

Ed è così che Earl Stone – facendo la staffetta tra El Paso e i sobborghi di Chicago – diventa un leggendario corriere della droga. Dietro alla maschera della senilità, Eastwood (visibilmente più curvo, più fragile e incerto nei passi delle sua ultima apparizione, in Di nuovo in gioco) mischia abilmente tra di loro le carte dell’ingenuità e della spregiudicatezza del personaggio. Earl non fa domande, e non si pone problemi di coscienza. Le mazzette di dollari che trova nel cruscotto dopo ogni consegna (all’inizio non esplora nemmeno il contenuti delle borse piazzate nel bagagliaio del suo pick up nuovo di zecca) gli permettono di ricomprarsi un po’ di rispettabilità in famiglia – dopo aver pagato i fiori e il bar al matrimonio della nipote. Anche se sua figlia continua a non parlargli e la sua ex moglie (Diane Wiest) lo evita.

CON UN ALTRO dei «viaggi» salva dalle ipoteche il locale dove va a fare colazione da sempre, tornando popular anche tra gli amici. Poi è la volta di riscattare casa e serre dall’odiata burocrazia…. Le trasferte iniziano a moltiplicarsi. Forse Earl non è tanto migliore dei trafficanti per cui lavora. Ma i valori della cultura (e le leggi dell’economia) che lo circondano non sono certo immacolati. Come sempre quando si tratta di Eastwood, The Mule è un film più saggio di quello che sembra. Mentre, a sua insaputa, Bradley Cooper e Michael Pena, agenti della Dea, lo stanno braccando, Earl sfreccia – carico di cocaina – attraverso il paesaggio americano, godendosela un mondo – artrite e tutto.

GUIDANDO canta, devia chilometri per affondare i denti nei «miglior sandwich di maiale arrosto del Midwest», si ferma ad aiutare una coppia black in panne, confonde agenti di polizia recitando la parte del vecchietto; e alla notte, parcheggiato in un motel, celebra una lunga giornata di lavoro non con una ma due donne. «Poi mi ricoverate al cardiologico», sussurra prima delle dissolvenza in nero, sommerso da due bellezze latine seminude, provviste dal narcoboss Andy Garcia che a un certo punto vuole conoscerlo. La sua imprevedibilità, ostinazione, indipendenza e spirito d’avventura quello che lo rendono (un corriere) preziosissimo. In The Mule c’è sicuramente anche un film testamento. Fortunatamente non un eccesso di scuse.