«Posso offrirle delle libagioni per celebrare la fine della nostra narrazione condivisa?». Nei panni del Cliente – l’avversario del «mandaloriano» che dà il titolo alla serie: The Mandalorian – Werner Herzog gioca con il suo personaggio, con il se stesso nell’immaginario collettivo: il linguaggio forbito e spesso desueto, la cadenza tedesca con cui parla l’inglese, l’alone di fascino e mistero dell’uomo che ha compiuto imprese mirabolanti.

E sottolinea il suo ruolo nella storia, di apertura verso una narrazione più grande fatta di rimandi, omaggi, ricordi, allusioni che portano in primo piano il gesto stesso di raccontare, il piacere di muoversi da un genere all’altro come se fossero i tanti pianeti su cui si sposta – mai definitivamente – il protagonista, eroe western trapiantato nella galassia lontana lontana di Star Wars. E cioè l’uomo col volto perennemente coperto da un elmo futuristico – lo stesso del cacciatore di taglie della trilogia originale di Guerre stellari Boba Fett, che dava la caccia a Ian Solo – appartenente alla setta dei mandaloriani.

ANCHE MANDO – lo interpreta Pedro Pascal, ma la sua recitazione è affidata alla voce e ai gesti dato che non lo vedremo (quasi) mai in volto – come lo chiamano tutti, è un bounty hunter, e nel primo episodio il Cliente gli affida un’impresa sinora mai riuscita a nessuno: portargli una creatura misteriosa, di cui si sa solo l’età (50 anni) e il pianeta su cui viene tenuto nascosto.

È quello che tutti hanno subito soprannominato Baby Yoda – poiché appartiene alla stessa «razza» del personaggio al quale nella trilogia originale prestava la voce Frank Oz – ma che nella serie viene chiamato solo The Child, il bambino – di cui ha l’aspetto e il temperamento nonostante l’età. È lui il motivo per cui Mando rinnega la sua missione, contravvenendo alle regole della gilda dei cacciatori di taglie, e mettendo a rischio la propria vita per salvarlo dai tantissimi che gli danno la caccia.

ED È ANCORA lui – un pupazzo animato meccanicamente e non in computer grafica – il successo più grande della serie, di cui ha parlato in una recente intervista con il «New York Times» lo stesso Herzog: «È un fenomenale traguardo della scultura meccanica. Quando l’ho visto era straordinariamente convincente, unico. Poi i produttori hanno cominciato a discutere l’idea di farne una versione interamente digitale, con lo schermo verde. Gli ho detto che sarebbe stata una scelta codarda. ’Siete dei pionieri, mostrate al mondo cosa siete in grado di fare’».

The Mandalorian è la serie con cui Disney ha lanciato la propria piattaforma (giunta in Italia il 23 marzo): Disney +, di cui è il prodotto originale «di punta», realizzato infatti dallo stesso team (fra cui la produttrice Kathleen Kennedy) che cura la saga cinematografica di Star Wars e sviluppato da Jon Favreau (regista fra gli altri di Iron Man). Con il vantaggio, rispetto alla trilogia sequel, di potersi muovere con maggiore libertà rispetto alle aspettative dei fan – o a quelle che vengono interpretate come tali dai calcoli produttivi più simili ad algoritmi che a storie.

Rispetto alla debacle dell’Ascesa di Skywalker, The Mandalorian si muove infatti libero in territori inesplorati e allo stesso tempo familiari – pullulanti di razze aliene e pianeti provenienti dalla saga di Lucas – portando all’estremo l’ispirazione western di Guerre stellari e collocandosi temporalmente fra la fine della trilogia originale e l’inizio della nuova, in un tempo in cui dalle ceneri del malvagio Impero si sta costituendo il Primo ordine. Ma questi collegamenti alla storia principale sono appena accennati, mentre nel suo infinito vagabondare nella galassia il Mandalorian passa da un’avventura all’altra, eroe riluttante che passa dalla difesa di un villaggio di contadini minacciati da predoni, come nei Sette samurai, alla fuga da un’astronave simile a quella di Alien dove è stato intrappolato con l’inganno.

«THE MANDALORIAN», «creatura» seriale inserita in un labirinto di riferimenti, si affaccia infatti su un universo espanso che non è più solo quello sterminato di Star Wars ma ingloba – furbescamente e magnificamente – anche la cultura pop ad esso estranea, ad esempio nella scelta di Giancarlo Esposito (il temibile Gus Fring di Breaking Bad) come nemico finale nell’ultimo episodio girato da Taika Waititi – che interpreta anche il droide Ig-11. Una narrazione condivisa appunto, costruita sul piacere di raccontare in una galassia lontana dove ogni storia è possibile.