«Che avevo fatto di terribile, infine. Ero stata anni prima una ragazza che si sentiva persa, questo sì. Le speranze della giovinezza parevano già del tutto bruciate, mi sembrava di precipitare all’indietro verso mia madre, mia nonna, la catena di mute o donne stizzose, da cui derivavo. Occasioni mancate…».

Conosciamo così, sulle pagine del romanzo di Elena Ferrante i pensieri più intimi che si rincorrono in Leda, docente di inglese in vacanza al mare da sola. Le figlie ventenni sono andate a studiare in Canada, dove vive il loro padre, Leda sembra felice di questa solitudine, si gode il sole, i bagni, la bellezza dei luoghi. Finché un giorno arriva proprio lì accanto a lei una famigliona napoletana, sono cafoni e invadenti, la donna che sembra tenere tutto insieme si chiama Rosaria, è incinta, poi ci sono Nina una ragazza giovane e sua figlia Elena, Nina è bella, sottile, la bimba gioca sempre con la bambola e vuole le sue attenzioni.

E ALLORA accade qualcosa in Leda, che la riporta indietro, come se la sua vita di madre le tornasse davanti specchiandosi in quella di Nina. Ma cosa le unisce davvero? La figlia oscura (edizioni e/o) parla di maternità attraverso un personaggio femminile che ammette a sé stessa – e forse al mondo – di avere vissuto male l’essere madre, di avere sentito quel ruolo come un peso, una fatica, qualcosa che limitava la sua libertà, la sua possibilità di crescere, e al tempo stesso di essere stata soffocata da questo senso di colpa per un sentimento che non aveva il diritto neppure di immaginare. È da qui che Maggie Gyllenhaal ha iniziato il lavoro del suo film conquistata come ha detto dalla possibilità che il romanzo di Elena Ferrante dava alla sua esperienza di madre, compagna e donna di «trovare voce».

Gyllenhaal, alla sua prima opera da regista, ha voluto nel ruolo di Leda Olivia Colman (Oscar per La favorita), mentre in quello di Nina troviamo Dakota Johnson, e ha cambiato la nazionalità e la lingua dei personaggi, pur conservandone, soprattutto in Leda, l’imbarazzo verso le proprie origini – qui di italoamericana, nel libro di napoletana. Siamo in Grecia, anche la grande famiglia che la travolge, sembra essere di emigranti, intrecciando così un legame col «sud»; per il resto la «trasposizione» segue piuttosto da vicino l’originale, ma poco importa, non è la distanza o meno il punto. Quello che manca in The Lost Daughter – presentato in concorso – è un’idea di cinema che renda i suoi dilemmi materia cinematografica, e che non può essere – non da sola – il continuo su e giù nel tempo, l’uso dei flashback nella testa di Leda con cui ricostruire i momenti bui.

INVECE dopo un inizio sussurrato appena, di primi piani e triangolazioni mancate di sguardi, la narrazione si ferma in questa altalena di passato e presente, mancando la dimensione interiore nella sua conflittualità, che ha forse bisogno di scarti, di una interpretazione, di una messinscena di senso. Che gli sguardi insistiti, i non detti di possibile complicità, le allusioni non bastano a colmare, sfuggendo agli interrogativi, al conflitto di materia complessa intrappolata nella superficie.