L’effetto Sean Penn – risate di scherno – è arrivato ai titoli di testa, quando sullo schermo è apparsa la scritta «la brutalità dell’amore impossibile condiviso da un uomo…. e una donna». Se, tra i film del concorso di quest’anno, Personal Shopper di Olivier Assayas ha portato a casa molti fischi, e sono stati in parecchi a detestare Neon Demon, di Nicolas Winding Refn, le prime reazioni all’avventura africana di Sean Penn regista, The Last Face, fanno pensare al linciaggio. Ostinato, passionale, sincero, maldestro con la stampa e completamente incapace d’ironia, Penn (fresco dall’imbarazzo di cui l’ha coperta «l’intervista» a El Chapo) è un bersaglio facile. E, nonostante l’umanitarismo turistico del suo film non sia peggio di quello che passano polpettoni pieni di sé come The Constant Gardner o Babel, è probabile che The Last Face diventerà il film peggio recensito del festival.

Tratto da una sceneggiatura originale di Erin Dignam, ambientato com’è sullo sfondo delle guerre che tormentano l’Africa centrale, il film ha un’intrinseca dimensione kolossal che contrasta con le ambientazioni più intime delle regie precedenti di Penn –i noir «regionali» The Crossing Guard e The Pldege, e l’incrollabile purezza di Into the Wild. Rispetto a un film su un soggetto analogo, come Beasts of No Nation, The Last Face ha un impianto più convenzionalmente hollywoodiano (anche se è un film indipendente e ancora senza distributore Usa) – la storia d’amore che si svolge sullo sfondo di un conflitto dall’altra parte del mondo. Wren Petersen (Charlize Theron) è la direttrice di un’organizzazione di aiuti internazionali, Miguel Leon (Javier Bardem) un dottore alla Medici senza frontiere.

https://youtu.be/gUGh9uBzSAQ

I due si innamorano tra una carneficina e l’altra, in mal improvvisati ospedali di campo, truculenti come quello di M.A.S.H! . Intorno ai due amanti, infatti, gli africani muoiono come mosche, trucidati da miliziani che ricordano i bambini del Signore delle Mosche. «Qui non serviamo a nulla» dice Wren. Li dividerà il fatto che la passione umanitaria di Miguel non può che attualizzarsi «sul campo»; quella di lei nei corridoi della diplomazia. Nemmeno una ferrea dieta a base di Ernst Hemingway e Frank Borzage, probabilmente, avrebbe salvato il film di Penn. Che è sconquassato e noioso, ma non merita la ferocia con cui è stato accolto.