«Un ibrido interessante». Così, nell’incontro che ha seguito la proiezione stampa di The Irishman, poche ore dopo la prima mondiale, in occasione della serata inaugurale del New York Film Festival, Martin Scorsese ha definito la sfida intrinseca al suo nuovo film. Si trattava, ha detto il regista, circondato sul palco dai suoi attori (Robert De Niro, Joe Pesci e Al Pacino) e da due produttrici (Jane Rosenthal e Emma Tillinger) «di trovare l’equilibrio del film tra la realtà di vederlo a casa e quella di vederlo in un cinema, o in un festival. Stiamo indubbiamente attraversando un momento di cambiamento con cui però, abbiamo concluso, valeva la pena di confrontarsi per poter realizzare questo progetto», ha detto ancora Scorsese, attribuendo a Ted Sarandos e a Netflix il merito di una «sintonia creativa» che ha permesso l’attuazione di un’idea in cantiere da oltre dieci anni e che si è tradotta in un budget stimato intorno ai 159 milioni di dollari.

SICURAMENTE una delle cifre stilistiche che caratterizzano The Irishman, la ricerca di una visione in bilico tra piccolo e grande schermo – e quindi una forma diversa da quella a cui Scorsese ci ha abituati: più raccolta, giocata sui primi piani dei personaggi, meno «movimentata» – non è però l’unica ragione per cui l’aggettivo «ibrido» si sposa molto felicemente con questo film. Ibridi sono anche la dimensione, che combina l’epica (un kolossal di tre ore e mezza che abbraccia un arco storico di cinquant’anni, dal secondo dopoguerra all’inizio degli eighties) con il teatro da camera; e il genere- un mix di gangster film, affresco storico (i Kennedy, Hoffa, Sam Giancana, Cuba) e commedia, articolati tra la tensione drammatica del lungometraggio e il gusto contemporaneo, più disteso, per la miniserie.

IBRIDO anche lo slancio temporale – verso il passato (il bagaglio culturale del cinema scorsesiano) e il futuro (gli effetti speciali che hanno permesso ad attori settantenni di tornare uomini di mezz’età). «La sfida era quella di fare sì che gli attori potessero lavorare liberamente, senza protesi, caschi (da motion capture, ndr) in testa, o palle da tennis in bocca per riempire le guance. E gli effetti speciali ideati appositamente dalla Industrial Light & Magic per il film erano l’unico modo per farlo», ha detto ancora Scorsese ai giornalisti. Ibridi infine diventano anche gli attori stessi -i volti digitalizzati per renderli più giovani (l’effetto è «riposato», un po’ flou, più che «rifatto», da plastica facciale, o artificiale come la Motion capture) mentre i movimenti dei corpi – che non si possono «ringiovanire» con la computer grafica – mimano a settant’anni e più quelli agili, svelti, di uomini di mezza età.

«Non si trattava solo di immagini digitali o di scegliere gli obbiettivi giusti (6 camere, di cui due dotate di tre obbiettivi ciascuna) – ha spiegato Scorsese – era un questione di gestualità, di energia nei movimenti, della limpidità degli occhi. L’operatore di macchina mi diceva: «Quando Al si alza della sedia deve farlo come un uomo di quarant’anni. Non è facile. Stavamo scolpendo il tutto, nei minimi dettagli e in quel composito andava trovata la verità dell’interpretazione. Un’esperienza straordinaria».

SBOCCIATO, nel 2007, dal desiderio del regista e di De Niro (con questo, sono a 9 film insieme) di collaborare nuovamente dopo Casino, The Irishman deriva dalle conversazioni su un altro adattamento a sfondo criminale, il romanzo L’inverno di Frankie Machine, di Don Winslow. Ma regista e attore, insieme allo sceneggiatore Steve Zaillian, si sono successivamente riposizionati su un volume di non fiction, I Heard You Paint Houses, di Charles Brandt, biografia di un associate irlandese della famiglia mafiosa dei Bufalino e, per alcuni, il libro che spiega una volta per tutte il mistero che circonda la scomparsa del leggendario capo del sindacato dei trasportatori, Jimmy Hoffa.

DE NIRO (con gli occhi azzurro acciaio) è Frank Sheeran, un veterano che ha servito con Patton e che, rientrato a Filadelfia, si lascia facilmente reclutare prima dal soave, imperscrutabile, Russell Bufalino (Joe Pesci in quella che è forse l’interpretazione più sorprendente del film; eppure sembra che abbiano dovuto fare il salti mortali perché accettasse la parte) e poi da Jimmy Hoffa (Pacino, che porta una leggerezza diabolica al ruolo che fu già di Sylvester Stallone e di Jack Nicholson). In gergo mafioso, «dipingere case» è ammazzare – Scorsese ce lo spiega con un’immagine: il sangue rosso che schizza su un muro bianco dalla testa di un uomo ucciso a colpi di pistola.

Frank «dipinge case» per i Bufalino e per Hoffa, che lo prende sotto la sua ala, lo usa come killer ma gli dà anche una posizione importante nel sindacato. «Negli anni cinquanta, Hoffa era Elvis, negli anni sessanta i Beatles», spiega Frank nel voice over che (come in Quei bravi ragazzi) attraversa il film, intessuto in una complicata serie di flash back che partono dalla casa di riposo dove è richiuso, ormai anziano.

Oltre ai contratti, Frankie condivide con Russell e Hoffa anche la sua lealtà e le sue amicizie.Le rispettive famiglie festeggiano insieme Natali, compleanni e matrimoni, come quello a cui Frank e Russell, con signore, si stanno recando in Michigan, un road trip -punteggiato di soste per fumare (Russell non permette sigarette a bordo)- su cui Scorsese scadenza la suspense del film verso il magnifico atto finale. Banalità del quotidiano e sangue, il classico mix scorsesiano in cui fanno capolino ogni tanto i Kennedy, Castro, le famiglie mafiose di Vegas… Ma non aspettatevi un film alla Oliver Stone.

«DOVEVAMO fare delle scelte, rispetto al libro» ha risposto Scorsese a chi gli chiedeva come mai è stato dato poco spazio alla teoria di Brandt secondo cui sarebbe stata la Mafia a uccidere John Kennedy. «Volevamo palare della natura umana, di chi siamo – dell’amore, dei tradimenti, del senso di colpa, della possibilità o meno del perdono… Questa la stoffa di cui sono fatte le amicizie. Il nostro Frank Sheeran non è quello di Brandt, ma un personaggio che abbiamo creato per il film. E non volevo offuscare, con ipotesi storiche che possono essere contestate, il potere emozionale del suo viaggio. Ci interessava il conflitto morale in cui si trova perché essenzialmente Frank cerca di essere un brav’uomo».