Si può indagare profondamente i rapporti fra esseri umani sotto forma di una fuga? A questa e a molte altre domande offre le sue risposte The Goldlandberg, ultimo lavoro del coreografo Emanuel Gat e della sua compagnia, che apre stasera all’Auditorium della Conciliazione il Romaeuropa Festival. La scintilla per lo spettacolo, che ha trionfato a Montpellier quest’anno, è nata dall’incontro con il documentario che nel 1977 Glenn Gould ha realizzato per la radio canadese, sulla comunità anabattista del fiume Rosso, nel nord della provincia canadese di Manitoba. Si è poi aggiunto il sortilegio dell’ultima registrazione delle Variazioni Goldberg di Bach, a comporre un percorso musicale assai complesso. Il rapporto di Gat, uno dei più affermati coreografi di oggi, con la musica è infatti sempre diverso, e presenta sempre frutti inusuali.

Com’è nata l’idea di proporre un percorso musicale combinato, a strati sovrapposti?
Non c’è un’idea predeterminata, come sempre, tutto è accaduto attraverso il «processo», chiamiamolo così, e la prima molla era il desiderio di lavorare sulle parole e i suoni del documentario The quiet in the land, senza riferimenti alla musica di Bach. Poi molto più tardi, questo processo creativo si è incrociato con uno studio fatto con i danzatori sulla musica di J.S. Bach, che poi si è lentamente integrato con la prima fase del lavoro, per raggiungere la traccia sonora che abbiamo oggi. Questo è il mio modo costante di lavorare: il «processo» crea, con la sua evoluzione, la coreografia, non c’è un’idea che va realizzata a ogni costo.

«The Goldlandbergs» (che intreccia nel nome le due fonti musicali) è un esempio davvero importante di questo procedimento creativo, a Roma ne vediamo il risultato definitivo?
Non è questa la prospettiva, una versione definitiva non esiste mai. La coreografia è fatta di esseri umani, corpi, persone vive, che cambiano negli anni. Mi rifiuto di gettarmi in un lavoro folle per «bloccare» questo processo e immobilizzare il mio lavoro; al contrario lascio ch il cambiamento fluisca, e diventi la mia creazione.
Sotto questo aspetto però le sue creazioni si saldano non solo al suo lavoro ma in modo definitivo ai danzatori della sua compagnia. Non possono vivere altrimenti?
In linea di massima è così, ma c’è una via d’uscita. Ho rimontato i miei lavori con altre compagnie, ma non insegnando loro i movimenti, bensì riproducendo l’intero «processo». Cambiano leggermente alcuni elementi, come in una ricetta, realizzata di volta in volta con gli ingredienti a disposizione, ma l’essenza della coreografia resta quella.

La vostra residenza è in Francia ma accanto a una larga attività internazionale ci sono alcuni speciali palcoscenici che visitate anno dopo anno, come Roma. È importante per voi creare questa relazione con il pubblico?
Ha un enorme significato, specie se pensiamo quanto effimera può essere la danza. La continuità è fondamentale perché anche il pubblico possa approfondire il rapporto con il mio lavoro, visto che non hanno un libro o un quadro da studiare, analizzare in ogni momento, ma una creazione che vive solo su un palcoscenico. Quando c’è la continuità non si parte da zero, e questa relazione ci permette di offrire dei lavori non isolati da un contesto, ma nel quadro di un flusso creativo più grande.

Il documentario di Glenn Gould tratta temi fondamentali che dal 1977 arrivano vivissimi nei nostri giorni, il senso ultimo delle scelte nella vita, l’elemento della spiritualità, i conflitti nella società e fra le persone. Quanto conta la realtà di Israele, il suo paese, in questo racconto?

Le domande che il documentario pone, e per questo è un’opera di genio, sono universali, riguardano gli esseri umani e restano valide nel tempo. Proprio per questo, in riferimento alla mia origine israeliana, cerco di evitare di focalizzare ogni ricerca su una questione specifica, come potrebbe essere il conflitto arabo-israeliano. Preferisco creare un processo organico che includa domande, risposte, influenze, punti di vista diversi. E certamente una domanda riguarda i conflitti, sicuramente un elemento costante dei rapporti fra gli uomini.