Il titolo, The Four Seasons Restaurant, si ispira a un episodio nella vita dell’artista Mark Rothko. Nel ’58 un ristorante esclusivo di Manhattan, il Four Seasons appunto, gli aveva commissionato per la sua apertura una serie di tele. Rothko aveva accettato, ma appena visto il posto le aveva ritirate immediatamente, rinunciando all’altissimo compenso. Un gesto il suo, divenuto subito il simbolo di una resistenza, quella dell’artista al «consumo» bruto della sua opera. Da Rothko, che ama molto, Castellucci è arrivato a Hölderlin, i due riferimenti per questo suo nuovo spettacolo, che dopo il festival di Avignone arriva finalmente in Italia grazie al festival RomaEuropa (al teatro Argentina fino al 3 novembre). In cui il regista, quest’anno Leone d’oro alla carriera alla Biennale Teatro di Venezia – ne è stato anche direttore nel 2005 – continua il suo lavoro sulla negazione delle immagini già presente nei precedenti Sul concetto di volto nel figlio di Dio, riflessione intorno al dipinto di Antonello da Messina, e Il velo nero del pastore, ispirato a un racconto di Nathaniel Hawthorne. Stavolta però è la parola poetica, la tragedia greca, La morte di Empedocle  (testo filmato da Straub e Huillet in un loro magnifico film) a prendere corpo sull’orlo di un buco nero, dal quale provengono i suoi registrati dalla Nasa. L’Etna, il vulcano, dove Empedocle si è gettato trasformando la sua assenza in pensiero. Le protagoniste, tutte donne, entrano in scena tagliandosi la lingua: «È un modo per creare una comunità, sono un gruppo di amputate e la loro parola non appartiene più a questo mondo » dice Castellucci. Nella mattinata romana le prove attendono. Ma lui ci regala il suo tempo, ed è sempre una scoperta conversare insieme a questo artista che con la sua ricerca – e con la Societas Raffaello Sanzio, fondata nell’81 insieme a Chiara Guidi – ha mutato radicalmente la scena italiana e quella internazionale.

Hölderlin e Mark Rothko. Qual è la relazione che li unisce?

Ho utilizzato il testo di Hölderlin nella traduzione di Cesare Lievi. È stato un lavoro di montaggio, ve ne sono infatti tre diverse versioni, e anche questo dichiara la sua parabola che è il tentativo della tragedia. Rothko mi ha condotto in qualche modo a Hölderlin, sin dal titolo del lavoro, che appare bizzarro ma si riferisce, appunto, a un episodio della sua vita. La proprietà di un lussuoso ristorante a Manhattan, che esiste ancora, per la sua inaugurazione aveva commissionato a Rothko una serie di grandi tele che lui aveva realizzato. Una sera è andato lì a cena, e quel posto gli ha fatto talmente schifo che ha ritirato le tele nonostante fosse già stato pagato, e molto. Questo suo gesto è diventato leggendario, perchè è molto di più del rifiuto di una proposta commerciale. È un gesto estetico che si compie in un’epoca specifica, l’America degli anni Sessanta in pieno boom economico, che all’improvviso scopre una disfunzione delle immagini. Che è una forma di bulimia, e Rothko difatti non ha sopportato vedere i suoi quadri in mezzo alla gente che mangiava. Se ci pensi è la stessa linea su cui si muove la pop art, solo che Warhol riproduce le Campbell’s Soup, e Rotkho sceglie invece di lavorare in sottrazione, di togliere le cose piuttosto che aggiungere. È una tendenza molto presente nel pensiero occidentale, che mi ha portato a riscoprire la forza di Hölderlin.

In che senso?

Empedocle è un filosofo che decide di «sparire» nell’Etna. Ma il suo suicidio è un gesto creativo per la vita, e dichiara la rottura di un contratto sociale. In questo spettacolo voglio indagare a strategia dell’uscita di scena nel suo senso letterale di fare spazio. Rothko vuole che le sue tele siano collocate a dieci centimetri dal pavimento perché raffigurano uno spazio nel quale lo spettatore entra. È uno spazio di contemplazione, quasi una cappella, lo spazio del pensiero e della meditazione. Le persone in scena consumano delle azioni, delle parole che corrispondono all’uscita.

Parlavi della disfunzione delle immagini scoperta negli anni 60. Ma che appartiene anche alla nostra contemporaneità, oggi viviamo in un flusso continuo di immagini.

Se ci penso mi viene in mente una sorta di rumore bianco, la quantità e l’accumulo finiscono per equivalere al nulla. Non c’è un antagonismo, ed è la ragione che rende questo flusso di immagini non interessante. È come uno sfondo sfocato in cui niente ti tocca, niente ti emoziona o riguarda la tua vita. L’esperienza dell’arte si fonda allora su un richiamo, sull’appello a scegliere il silenzio, a raccogliersi insieme intorno a un’immagine anonima che però di da la sensazione che sia lì solo per te. Credo che lavorare con le immagini nella nostra epoca equivale a essere come degli eremiti nel deserto. La pop art non è più possibile, nel continuum c’è solo il nulla.

Puoi spiegare meglio cosa intendi per uscita di scena? Al di là del significato teatrale che riguarda l’essere degli attori, comporta molte altre cose, può essere la rinuncia dell’artista alla sua arte.

Rothko si suicida, Hölderlin si chiude in una torre e impazzisce … L’uscita di scena, intesa in senso metaforico, vuol dire per me uscire dal contenuto. Four Seasons Restaurant è uno spettacolo glaciale, non c’è niente di cui emozionarsi. Si riferisce al mattino, alla gioventù che non è anagrafica ma riguarda la capacità di ricevere le cose sempre in modo nuovo. Non c’è nulla da comunicare, nessuna intenzione se non una armonia geometrica che si lascia contemplare. L’artista deve essere trasparente, la biografia o l’autobiografia non sono mai interessanti. La forma è invece qualcosa che brucia, un atto di fiducia verso lo spettatore adulto e verso la sua capacità di ricostruire il tutto.

In scena ci sono solo donne. Cosa motiva questa scelta?

Forse sono influenzato da un certo stereotipo di grazia e di bellezza botticelliane, e non riesco a immaginare parole di Hölderlin che dette da una donna. Mi piace anche l’idea di rovesciare la regola del teatro greco che vietava alle donne il palcoscenico. Qui interpretano anche i ruoli maschili, e idealmente sono lo stesso personaggio, un’unica donna che dà vita a tutti i ruoli. Nel dominante femminile sento una forza rivoluzionaria.