Prima serie tv per Sean Penn, che ne è il tormentato protagonista, The First tra gli appuntamenti più attesi dell’autunno – oggi in sala con un’uscita evento per Nexodigital (www.nexodigital.it) e da domani su TimVision – è una fantascienza del contemporaneo pervasa dallo stesso sentimento di malinconia per un futuro che non esiste (più) come nel magnifico First Man – Il primo uomo di Damien Chazelle o in Blade Runner 2049; un futuro cioè che è solo presente di cui è impossibile l’utopia, un futuro che è già qui, ora e subito, dove le immagini inventate nell’attesa che arrivasse lasciano solo apocalissi e macerie, miseria e guerra.

Beau Willimon, che ne è l’autore, dimostra ancora una volta, come già con House of Cards, di sapersi sintonizzare sulle tendenze dell’immaginario proponendone detour, variazioni,e ambizioni(che scopriremo nelle otto puntate se mantenute) a partire da qualcosa di «riconoscibile», qui uno spazio raccontato in modo il più possibile realistico per creare una prossimità tra lo spettatore e gli astronauti nella dimensione emotiva, familiare, personale di chi partecipa a questa esperienza.

TUTTO COMINCIA una mattina come altre, all’alba: la Nasa insieme a una compagnia privata sta per lanciare una nuova missione, destinazione Marte, il Pianeta Rosso, la responsabile dell’operazione (Natascha McElhone) è determinata, la Terra sta per soccombere, c’è bisogno di nuove frontiere. Che però sia destinata al fallimento lo intuiamo subito, ancora prima che accada, dall’ansia di colui che ne doveva essere alla guida, Tom Hagerty (Penn) veterano dello spazio che si è ritirato per ragioni private. E sappiamo anche ormai che ogni conquista è piena di vite interrotte, di incidenti mortali, di fallimenti. «Credo che ognuno di noi può intuire negli altri o in se stesso il desiderio di esplorare luoghi sconosciuti, di andare oltre i confini sicuri della nostra società» ha detto Willimon parlando della serie – coproduzione tra l’americana Hulu e la britannica Channel 4.

E IL PRIMO episodio, diretto da Agnieszka Holland come il secondo – è interessante anche la scelta dei registi che va dalla regista polacca, sceneggiatrice di Wajda e di Kieslowski con molta esperienza televisiva alla giovane autrice di Mustang, Deniz Gamze Erguven – è quasi una sorta di lungo prologo a ciò che accadrà, che all’azione predilige la trama intima dei protagonisti, i loro buchi neri emozionali. Mentre la missione si dissolve in cielo ancora sulla terra, davanti agli occhi dei familiari degli astronauti, e dunque emergenza, lacrime, rabbia, stupore, l’inadeguatezza della responsabile, il personaggio di Penn comincia a delinearsi, anche lui più sulla terra per ora che in cielo, pieno di ombre come le stanze chiuse e vuote della sua grande casa, come i ricordi che balenano nella sua testa, quei lampi di passato che con prepotenza si accendono nel presente.

Una moglie che non c’è più, la figlia che è andata via, fragile, tossica, con le unghie nere e l’astinenza che la fa vomitare… E il senso di colpa, enorme, che soffoca, che lo ancora al suolo pure se lui, da qualche parte, continua a guardare il cielo, punto di fuga per qualcosa da cui rimane però impossibile fuggire