Florian Zeller è un giovane drammaturgo francese (sì, oggi a 41 anni si è giovani per questo lavoro), autore di diverse opere teatrali di successo rappresentate un po’ ovunque. Come The Father, messo in scena in decine di allestimenti e premiato in diverse occasioni. Come si sa però il passaggio dal teatro al cinema non è sempre felice, manca il respiro, lo spazio, il cambiamento di situazioni, così, spesso, le trasposizioni rischiano di apparire rattrappite non altrettanto efficaci rispetto all’originale da palcoscenico. Infatti una prima rilettura di Le Père che risale al 2015 e aveva visto Jean Rochefort protagonista di Florida diretto da Philippe Le Guay (sceneggiato con la complicità di Jérome Tonnerre) non deve avere convinto e soddisfatto appieno Zeller. Dopo anni, lui stesso si è messo a riscrivere e adattare il testo per il grande schermo dimostrandosi piuttosto talentuoso: la sua sceneggiatura, non originale, scritta a quattro mani con Christopher Hampton è stata premiata con l’Oscar. Non contento ha poi voluto anche esordire alla regia e qui si è dimostrato acuto nello scegliere l’interprete principale cambiandogli nome dalla pièce originaria.

ECCO QUINDI che Le Père André è diventato The Father Anthony, in omaggio al suo protagonista Anthony Hopkins, anche lui premiato con l’Oscar come miglior attore. La storia è, relativamente semplice: un uomo ultraottantenne è ormai preda dell’Alzheimer, confonde le persone, le situazioni, i ricordi e la figlia Anne, pur con tutto l’affetto, non sa più come gestire la situazione. Quella dell’Alzheimer è una situazione già vista in altri film. In questo caso il punto di vista è completamente spostato, non esiste più un mondo reale con cui confrontarsi e vedere come il nostro malato reagisce, noi vediamo e sentiamo quello che lui percepisce e come lo interpreta. Ecco quindi che l’appartamento in cui vive talvolta diventa estraneo, la figlia in alcune occasioni assume altre sembianze, come la badante che lui ostinatamente rifiuta perché si ritiene in grado di badare a se stesso. Peccato che la realtà vera non sia così, nonostante i tentativi di reinventarsi, lui, ingegnere, che per fare il piacione si spaccia per ballerino di tip tap.

E così anche la nostra confusione aumenta, anche noi fatichiamo a decodificare quel che succede in questa singolare identificazione con il mondo di un malato di Alzheimer. La narrazione si muove come fossimo all’interno di un thriller, «nulla è come sembra» è il sottotitolo del film che rende forse troppo esplicita la questione, ma il thriller è tutto nella testa di Anthony che sovrappone piani temporali e rimuove situazioni dolorose. E il racconto quasi fosse un epigono del cubismo, rappresenta tutto in termini tradizionali che volgono però verso l’originalità come il quadro alla parete della figlia prediletta che va e viene, come l’orologio nascosto per evitare che la badante lo rubi e perennemente smarrito perché Anthony non ricorda mai dove l’abbia messo, nonostante il suo nascondiglio sia sempre lo stesso. E sulle note della Norma belliniana e del Pescatore di perle di Bizet, usate per farci entrare ancor di più nell’universo del protagonista, la storia procede senza un incedere tradizionale. Il pollo che la figlia porta per cena arriva una prima volta, poi ritorna, viene mangiato ma anche riproposto, altrettanto strani gli incontri-scontri col marito della figlia.

E QUI BISOGNA rifarsi al mostro che già è stato Hannibal Lecter e che ora esibisce un’altra interpretazione mostruosa per un personaggio su cui era facile scivolare, trasformarsi in gigione, lasciare che la «teatralità» prendesse il sopravvento. Hopkins invece è piuttosto misurato (solo piangere gli riesce meno bene) conferendo al suo Anthony una magnifica e a tratti antipatica dignità, pur minata da una malattia odiosa, che noi viviamo in prima persona. Accanto a lui Olivia Colman, già Oscar per La favorita, questa volta rimasta solo candidata per la sua appassionata e smarrita interpretazione di Anne, la figlia triturata tra l’affetto per il padre e l’impossibilità concreta di riuscire a venirne a capo. Una citazione a parte merita l’altra Olivia, Williams, alter ego di Anne che offre un sorriso fantastico e solare in una situazione inquietante. Infine la solita raccomandazione, questa volta più cogente: bisogna vedere il film in originale, laddove possibile, non per snobismo ma per necessità, non si può restituire l’interpretazione col doppiaggio, anche il migliore adattamento sottrarrebbe qualcosa: l’intera operazione non lo merita.