Cinque ore di Cina, vecchia e nuova. Cinque ore di una famiglia, o di quello che ne resta. Cinque ore di cinema resistente, controcorrente, testardo e purissimo. Chiusi i battenti della 72a Mostra del Cinema di Venezia, saltabeccando da una sezione all’altra, da un continente all’altro, tra immagini digitali appena girate eppure già morenti, riportiamo a casa la fluviale pellicola The Family (Jia, 2015). Pellicola sul serio, in 35 mm, oramai una rarità.
Dai mille rivoli dell’industria cinematografica cinese, tra blockbuster che rivaleggiano per sapienza produttiva con Hollywood e autori costretti a lavorare in assoluto silenzio come Wang Bing, emerge con sorprendente consapevolezza un nuovo cantore della Cina contemporanea: il quarantunenne Liu Shumin, documentarista alla prima opera di finzione, ha spaginato i programmi della 30a Settimana della Critica tanto da convincere Francesco Di Pace e i selezionatori della SIC a inserire come pre-apertura della kermesse The Family, con tutta la sua ingombrante durata. Ne è valsa la pena.
I duecentottanta minuti di The Family sono cadenzati da raccordi in nero, ellissi temporali che dettano il ritmo di questo on the road con ben poca strada. La lunghezza della pellicola, la durata delle inquadrature, la posizione della macchina da presa, lo scorrere del tempo e i ruoli affidati ad attori non protagonisti sono tasselli di un cinema fieramente indipendente, fuori tempo massimo come per la selezione della Settimana della Critica, eppure capace di ritagliarsi il proprio spazio, di catturare gli sguardi di spettatori spesso assuefatti, indolenti.
Liu Shumin non sceglie a priori un ritmo narrativo, non impone a The Family tempi preconfezionati: è l’osservazione della realtà, sono i gesti della vita quotidiana degli anziani coniugi Deng e Liu a modellare lo scorrere del tempo. Nel seguire il viaggio di questi due genitori, non così distanti da Shūkichi e Tomi di Viaggio a Tokyo di Yasujirō Ozu, ci ritroviamo a metà strada tra passato e futuro, spettatori di un presente in precario equilibrio: la Cina si muove troppo velocemente per Deng e Liu, per la famiglia tradizionale, per non frantumare in mille pezzi città, montagne, ricordi.
The Family muta lentamente, si sposta dagli interni agli esterni, da una narrazione minimalista a uno strappo a prima vista straniante – alla lista dei registi di riferimento, da Ozu a Kiarostami, passando per Hou Hsiao-hsien ed Edward Yang, l’aggiunta di Takeshi Kitano assume un senso compiuto proprio con l’inatteso finale. Liu Shumin anche in questo caso non ha fretta, non corre, continua a pedinare i due protagonisti, direttori d’orchestra di un racconto che è più corale e generazionale di quanto possa sembrare. Si veda, ad esempio, l’emblematica macrosequenza tra le vie della città, spesso in campo lungo, lunghissimo, con Liu e Deng che sembrano dei piccoli soldatini in un plastico enorme, passanti casuali in un paesaggio urbano fatto di macerie e di grandi cambiamenti. La macchina da presa li segue, anticipa, abbandona, per poi ritrovarli quasi inavvertitamente. La fiction si tinge di documentario, annichilita dalle potenzialità visive della vecchia e della nuova Cina, da una coesistenza oramai sbilanciata. Dietro le case coi tetti diroccati, in lontananza, si innalzano palazzi, mentre Liu e Deng si immergono tra vie e luoghi che riecheggiano il passato, incuranti di smantellamenti e nuove costruzioni. Anche noi finiamo per perderli di vista, attratti dal brulicare delle strade, dagli altri passanti, dalla pennichella di un micio, da questa porzione di realtà che ha invaso lo schermo – il vecchietto ricurvo, il mercato, i motorini, le insegne, gli operai, i suoni e i rumori, il brusio delle voci. La macrosequenza si chiude su un quartiere in costruzione, palazzi su palazzi; poi il consueto intermezzo nero; quindi la prima immagine della nuova sequenza, quadri fissi di una casa in rovina, tra resti accatastati di un muretto e la vegetazione che (ri)prende il sopravvento. Deng e Liu sembrano attraversare un varco temporale.
Tra le tante, un’altra sequenza, nel negozio di elettrodomestici. Tra condizionatori e scaldabagni, nuovamente in campo lungo: si chiude con Deng e Liu che guardano uno dei tanti televisori, grandi, piatti e persino in 3D, che li bombardano di immagini – colori che si rincorrono in un videoclip dal montaggio serrato. Deng e Liu sono viaggiatori da un’altra dimensione, da un passato che sentiamo già di rimpiangere. Il nostro sguardo non può che sposare quello dei due coniugi, che guardano il mondo per noi. Passivi e impotenti come noi. La loro famiglia è anche la nostra famiglia e quei figli così distanti e insofferenti, infelici, forse saranno i nostri.
Liu Shumin lavora negli interni su porzioni di spazio, incorniciando gli ambienti con porte, creando profondità di campo, di sguardo: la cucina, il soggiorno, un televisore fuori campo ma col sonoro in sottofondo che non tace mai. Poche parole tra Deng e Liu, oramai stanchi nella loro routine; incomunicabilità e incomprensioni coi figli. The Family parte dall’appartamento modesto dei due anziani, e via via si apre alla Cina, non più vicina, ma scappata via, probabilmente irraggiungibile. Ci immaginiamo un altro finale, con Deng e Liu che arrivano in una delle tante città deserte di Behemoth di Zhao Liang. Ma questa è un’altra storia. O forse è proprio la stessa. La Cina.