Mentre si va avanti nella visione di The Dissident è quasi impossibile non sentire rimbombare in testa gli elogi di Renzi alla monarchia «rinascimentale» del sovrano saudita Mohammed bin Salman. Non si tratta di scandalizzarsi, e tantomeno di stupirsi, sappiamo che il «giudizio» sui governi dipende dagli interessi delle economie e della geopolitica senza dimenticare che molti degli attori nella vicenda narrata da Bryan Fogel sono anche loro non proprio esempio di rispetto dei diritti civili, a cominciare dal presidente turco Erdogan passando per la Cia e per il governo americano le cui «interferenze» nel mondo sono state e sono sempre massicce – infatti il G20 virtuale dello scorso novembre si è tenuto a Riyadh.

PERÒ che un governo, che è più consono definire un regime, il cui potere si basa sul controllo capillare dei cittadini, sugli attacchi informatici, sullo spionaggio tramite un esercito addestratissimo di «mosche» e soprattutto sull’eliminazione fisica degli oppositori messi in galera o uccisi e sciolti in un forno insieme a 31 kg di carne per camuffare l’odore – in stile mafioso – come è accaduto (presumibilmente) a Jamal Khashoggi possa da chiunque, e in particolare un politico, essere definito una lezione per il futuro è decisamente osceno.

Se dunque il film – presentato lo scorso anno al Sundance e ora sulla piattaforma di MioCinema (rassegnamoci: quest’anno le sale in Italia rimarranno sbarrate almeno fino alle arene estive) – parte da una storia nota, l’omicidio del giornalista saudita, scomparso il 2 ottobre 2018 a Istanbul nel consolato del suo Paese – di cui i sauditi hanno ammesso la morte presentandola come «un incidente» solo il 20 di ottobre – da lì si muove per tracciare una riflessione sull’esercizio del potere molto più ampia. Che coinvolge l’Arabia Saudita ma anche le nuove strategie mondiali di controllo delle vite di ciascuno utilizzando armi digitali potentissime, che i possono distruggere le opposizioni e anche gli alleati divenuti sgraditi. Accadrà a Jeff Bezos, l’uomo più ricco del mondo, quando si sottrae a un business miliardario col sovrano dopo l’uccisione di Khashoggi; i sauditi hackerano il suo cellulare rendendo pubblica una sua relazione sentimentale con conseguente divorzio dalla moglie.
È soltanto un esempio, come ci spiega bene un analista intervistato di un settore sul quale il regime saudita ha investito ottenendo tra l’altro il temutissimo spyware Pegasus dagli israeliani – a proposito di contraddizioni.

AL DI LÀ delle voci che ricostruiscono nei dettagli la morte del giornalista – al consolato Khashoggi era andato per ottenere i documenti necessari a sposarsi – quindi il procuratore turco, i diversi funzionari di polizia, gli amici, i colleghi di Al Jazeera, Agnès Callamard, alla guida di una squadra delle Nazioni Unite che ha indagato psull’omicidio e ha in mano le registrazioni di quanto accadde nell’edificio – dettagli agghiaccianti – si ascolta quella della fidanzata, la giovane Hatice Cengiz che non ha mai smesso di lottare per la giustizia, e quella di Omar, un dissidente saudita rifugiato dal 2009 in Canada, la cui famiglia è stata messa in galera dal regime. La narrazione inizia con lui, che aveva conosciuto Khashoggi e aveva convinto gli altri dissidenti a accettarlo e a fidarsi di lui. Khashoggi era stato a lungo un «insider» della monarchia, però aveva lasciato tutto, lavoro, famiglia, potere, per un «esilio» in America dove attaccava il regime saudita sempre come giornalista sul «Washington Post». Con Omar fa un passaggio in più: decidono di sfidare i sauditi sul campo digitale, Khashoggi finanzia il progetto.

Da giornalista diviene dissidente: è questo che lo ha condannato? Passare dagli attacchi politici – a cominciare da quello al ruolo dei sauditi nella repressione delle primavere arabe finanziando le forze controrivoluzionarie che – veva sancito la sua rottura – a una lotta militante sapendo molte cose sul regime, forse troppe. E Riyadh organizza la sua eliminazione quasi come un atto di guerra inviando a Istanbul una squadra di quindici uomini.

FOGEL lavora su più piani, interroga diverse situazioni, per prima la figura di Khashoggi, che è complessa, piena di sfumature, come può accadere con qualcuno il cui lavoro è strettamente connesso a un potere. Cosa peraltro di cui si mostra consapevole provando a conquistare spazi dall’interno in una continua ricerca di mediazione: ma come può essere possibile? Le risposte si delineano nel percorso dell’uomo e del giornalista, nelle parole di chi gli è stato accanto, nella sua vita pubblica e nelle convinzioni del privato. Oltre la cronaca, e nella sua vicenda, Fogel cerca il significato della democrazia oggi, in bilico tra poteri e economie «invisibili» che sono quanto determinano il nostro presente.