Realizzato dagli stessi produttori di Wild Wild Country – un’indagine sulla setta di seguaci di Osho negli Stati Uniti – The Devil Next Door segue una strada analoga nel ripercorrere la vicenda di John Demjanjuk, un pensionato ucraino residente a Cleveland – dove era stato un operaio della Ford – che nel 1986 viene tratto in arresto, privato della cittadinanza e mandato a Gerusalemme, dove lo attende un processo in cui è accusato di essere «Ivan il terribile», una guardia del campo di concentramento di Treblinka incaricata di portare gli ebrei alle camere a gas.

LA MINISERIE documentaria di Yossi Bloch e Daniel Sivan (disponibile su Netflix) parte proprio dal suo arresto, nella comunità ucraina della capitale dell’Ohio, ma poi si sposta – per la maggior parte delle cinque puntate di cui è composta – in Israele, dove il processo a Demjanjuk rappresenta uno degli avvenimenti più eclatanti e drammatici dal 1961 del processo a Eichmann.
A puntare il dito contro Demjanjuk, che nega strenuamente di essere Ivan, ci sono gli stessi sopravvissuti di Treblinka, che con fermezza incrollabile dicono di riconoscere in lui l’uomo che si era macchiato di crimini irripetibili.

Le loro testimonianze strazianti sono al centro della tragedia sfiorata dalla serie senza davvero approfondirla: l’aspirazione a una giustizia impossibile, la necessità di bilanciare la legge con una seppur simbolica «riparazione» di un delitto troppo immenso per essere espiato. E più di tutto il valore della testimonianza dei sopravvissuti, che la Corte suprema di Israele – ribaltando la sentenza di colpevolezza del primo grado a causa del ragionevole dubbio: non è possibile stabilire con certezza che Demjanjuk e Ivan siano la stessa persona, dicono i giudici – si trova suo malgrado a sminuire, in un atto doloroso che non coinvolge solo i sopravvissuti e la pubblica accusa ma l’intero Paese, che vive come un lutto l’assoluzione.

Con un’aggravante: se permane il legittimo dubbio che Demjanjuk e Ivan siano la stessa persona, è fuori discussione la sua presenza, come guardia nazista, in altri cambi di concentramento come quello di Sobibor. Lasciar tornare John Demjanjuk alla sua placida vita da pensionato e nonno amorevole negli Usa ha quindi un ulteriore portato di sofferenza, anche se poi l’uomo verrà nuovamente arrestato – nel 2009 – e processato in Germania per la sua partecipazione ai crimini nazisti.

MORIRÀ nel 2012, a 91 anni, fra il primo grado e il processo d’appello, lasciando formalmente aperta la questione della sua colpevolezza in base al principio della presunzione d’innocenza. Una fine simbolica dell’intera vicenda, che The Devil Next Door tocca appena, ancora una volta senza osare addentrarsi nelle pieghe della Storia, in un caso giudiziaria che racchiude molti degli interrogativi che il lavoro sulla memoria deve necessariamente porsi. La miniserie di Bloch e Silvan ha quindi il valore di una testimonianza storica, ma resta inerte di fronte al problema posto dalla sua materia, che non è il processo a un uomo, ma un’udienza – come dice una commentatrice all’epoca della sentenza della Corte suprema israeliana – sulla Storia stessa.