Ribaltando la regola aurea dell’antologista, che valuta l’arte dalle sue vette, la grandezza dei Beatles può essere misurata, paradossalmente, proprio dalla loro opera più sofferta, rinnegata e restaurata, ma pur sempre costellata di capolavori. Procrastinato dalla indolente insoddisfazione della stessa band, Let It Be — inciso prima del più florido testamento di Abbey Road — ne diventa ufficialmente l’addio. Non solo un album, né un solo album: pionieristico progetto musicale e cinematografico, attraversa mezzo secolo di ricezioni e revisioni in perenne metamorfosi, sfidando chiunque voglia arrischiarsi in una ecdotica del rock alla ricerca dell’originale. Cinquant’anni fa, la sua prima uscita. I Beatles, in quanto tali, non c’erano già più.

SI ERANO DIVERTITI i quattro, durante le riprese del videoclip di Hey Jude, diretto da Michael Lindsay-Hogg nel settembre del ‘68. A due anni dal loro ultimo live, tornava a serpeggiare la voglia di tornare a far musica dal vivo. Quando il gruppo si ritrova a Twickenham, il 2 gennaio del ‘69, l’idea di Paul, spalleggiata dallo stesso Lindsay-Hogg, è filmare l’intero processo creativo dalle prove al concerto conclusivo. Get Back è l’appropriato titolo iniziale: un ritorno al passato per salvare il futuro dei Beatles. Di buone intenzioni è lastricata la strada per l’inferno. L’occhio della telecamera finisce per documentare il disfacimento della band, ritardato solo dal trasferimento ai più accoglienti studi Apple e soprattutto dall’arrivo del tastierista Billy Preston, alla cui presenza i quattro mostrano la loro faccia migliore.

SENZA George Martin, sciaguratamente bypassato, tocca al tecnico Glyn Johns reinventarsi produttore per dar forma a quelle disordinate jam. Get Back e Don’t Let Me Down sono i primi frutti, per un singolo che è quasi un manifesto programmatico, accompagnato dallo slogan «The Beatles as Nature Intended». Per il concerto finale Paul sogna palchi africani e piattaforme sul Mediterraneo, ma deve accontentarsi del più angusto tragitto dal seminterrato al tetto di Savile Row. È il 30 gennaio: quarantadue minuti di live a sorpresa, poi qualcuno chiama la polizia. Da quella esibizione vengono estratte I’ve Got a Feeling, ultimo episodio a quattro mani Lennon-McCartney, The One After 909, cavallo di battaglia degli esordi, e Dig a Pony. Dalla matassa di nastri magnetici emergono altri brani. Two Of Us, nostalgico incipit acustico; Across The Universe, destinata a futuro successo. I Me Mine e For You Blue di Harrison; le pleonastiche Dig It e Maggie Mae. Poi due gemme di Paul, The Long And Winding Road e Let It Be. Un magro raccolto, pensano i Beatles, lasciando a Johns il compito di venirne a capo.
«Gli abbiamo dato il mucchio di merda peggio registrata di sempre e lui ne ha cavato qualcosa». Il diplomatico giudizio di Lennon su Phil Spector, nel frattempo subentrato come produttore, è lievemente discorde da quello di Paul, che scopre The Long And Winding Road sfigurata da orchestre e cori celestiali. «Non farlo mai più», scriverà furioso ad Allen Klein, la cui ascesa al trono della Apple ha decretato la rottura finale. Il 17 aprile McCartney pubblica il suo esordio da solista. Un mese dopo Let It Be, nella versione di Spector, domina le classifiche. Il 20 maggio è prevista la prima del film. Nessuno dei Beatles è in sala.

PASSANO altri trent’anni. John non c’è più. George fa appena in tempo a dare il benestare ai programmi filologico-commerciali di McCartney, deciso a cancellare l’opera di Spector, la cui mano appare inopportuna quanto quella del Braghettone che coprì gli ignudi di Michelangelo nella Sistina. Le tante reissues dei recenti cinquantennali hanno colto solo in parte l’occasione di offrire vere edizioni critiche dell’opera dei Beatles. Quanto a Let It Be, solo il virus ha posticipato una nuova 50th Anniversary Edition del disco, mentre è atteso a settembre il rifacimento del film affidato a Peter Jackson. Una nuova veste, per un medesimo addio, che da cinquant’anni chiude il solco quando la musica è già finita. Il ragazzo con gli occhiali si avvicina al microfono, sorride, saluta il pubblico accorso sul tetto. «Vorrei ringraziare tutti a nome del gruppo. Spero che abbiamo superato l’audizione».