Gioca d’azzardo Hashim Thaqi. E lo fa nello stile che gli è proprio: la spregiudicatezza. Nel discorso alla nazione dei giorni scorsi il presidente del Kosovo ha negato le accuse di crimini di guerra e si è detto pronto a rassegnare le dimissioni se l’incriminazione sarà confermata. Mercoledì scorso il procuratore speciale per i crimini di guerra aveva rivelato l’esistenza di un atto di accusa contro Thaqi e altre nove persone, tra cui il leader del Partito democratico (Pdk) ed ex guerrigliero dell’Uck Kadri Veseli. Accuse, ora al vaglio del giudice preliminare, che vanno dall’omicidio alla sparizione forzata, dalla persecuzione alla tortura.
«Ho potuto compiere degli errori in tempi di pace, ma mai crimini di guerra» ha scandito Thaqi che ha rivendicato quel «proiettile di libertà» sparato contro «il proiettile nemico» di Slobodan Milosevic. Thaqi si è identificato totalmente con la «missione storica» dell’indipendenza del Kosovo: colpire lui, è il messaggio, equivale a colpire il popolo che ha versato il sangue per la libertà. Il Serpente ha accusato l’Ue di «doppio standard» per Serbia e Kosovo: «La Serbia avanza nei negoziati per l’adesione in Europa, al Kosovo è negata la libertà di circolazione».
«Congiura o coincidenza» si è chiesto poi il Presidente del Kosovo parlando della tempistica con cui è stata resa pubblica la sua incriminazione. Thaqi ha appreso la notizia quando era in viaggio verso Washington dove avrebbe dovuto incontrare il presidente serbo Aleksandar Vucic e quello americano Trump per concludere una serie di «accordi economici», come anticipato dall’inviato americano per il dialogo Pristina – Belgrado Richard Grenell.
Secondo la Süddeutsche Zeitung però l’obiettivo dell’intera operazione era di annunciare il ritiro delle truppe americane di stanza in Kosovo per guadagnare punti nella corsa alle presidenziali americane. Per questo Washington avrebbe accettato uno scambio di territori tra Kosovo e Serbia su base etnica che però aprirebbe il vaso di Pandora delle rivendicazioni nazionaliste. Secondo indiscrezioni di stampa nell’accordo ci sarebbe anche l’amnistia dei crimini di guerra tanto cara a Vucic e Thaqi. La pubblicazione dei capi d’accusa, secondo il Presidente, ha invece impedito quell’incontro, forse l’«unica possibilità di raggiungere un accordo», e ha concluso con un «no alla vendetta, sì alla tolleranza interetnica».
Una conclusione che ha il sapore di un bluff, come l’intero discorso. A cominciare dalla narrazione epica della guerra di liberazione del Kosovo che i membri dell’Uck hanno sfruttato per costruire uno Stato funzionale all’ascesa del loro leader, Hashim Thaqi e del loro principale alleato, gli Stati Uniti.
Ugualmente beffarda suona la promessa di «dimissioni immediate». Val la pena di ricordare quanto è stato specificato nel comunicato del procuratore speciale (Spo): «L’incriminazione è solo un’accusa. Essa è il risultato di una lunga indagine e riflette la determinazione con cui l’Spo può provare tutte le accuse oltre ogni ragionevole dubbio». Una dichiarazione talmente perentoria che da sola sarebbe bastata per far dimettere chiunque.
Thaqi cerca ora di guadagnare tempo. In suo soccorso è sceso in campo il premier albanese Edi Rama che è subito andato a Pristina e ha accusato la Corte speciale di lasciare una «macchia vergognosa sulla storia della giustizia internazionale». Tra le manifestazioni di solidarietà anche quelle dei diversi esponenti della politica kosovara, dall’ex premier Ramush Haradinaj a Veseli. Intanto tra le cancellerie internazionali regna la cautela. L’uscita di scena di Thaqi, per una sentenza di condanna per crimini di guerra, pare ufficialmente non interessare né all’Europa né agli Stati Uniti che del presidente kosovaro sono stati alleati e braccio armato. Eppure in quella crepa apertasi nelle relazioni transatlantiche si è creato uno spiraglio perché la giustizia facesse il suo corso. La partita è ancora tutta da giocare.