Ricucire le amnesie della storia, tessere i fili seppelliti dall’oblio, intrecciare trame smarrite, immaginare una narrazione possibile che riconsegni la vita primigenia all’acqua che scorre, popolando il delta del Mekong di fantasmi, reincarnazioni ed echi letterari. È così che l’artista vietnamita Thao Nguyen Phan chiude la sua trilogia visiva Monsoon Melody dedicata al grande fiume asiatico: lo fa tessendo leggende, miti e umilissima quotidianità nell’ultimo capitolo di una potente metafora esistenziale.
Becoming Alluvium, il videopoema vincitore del primo premio 2018, assegnato dalla Fondazione Han Nefkens in occasione del Loop festival (l’annunciato winner 2019 è il taiwanese Musquiqui Chihying, la cui produzione vedremo il prossimo anno), è stato presentato in anteprima a Barcellona presso la Fundació Joan Mirò, in una mostra che comprende anche l’installazione di pitture laccate su seta dal titolo Perpetual Brightness (l’insieme è visitabile fino a 6 gennaio 2020), inseguendo quell’idea di arte totale e avvolgente che caratterizza il lavoro di Thao Nguyen Phan. Poi, la complessa storia del Mekong e dei suoi abitanti umani e non – imbrigliata in sequenze da documentario e frammenti di stupenda animazione quando il tempo della realtà si distacca per approdare nei lidi dei racconti del folklore locale – viaggerà alla volta di nuove destinazioni europee. Mimando il contributo degli affluenti al «corso» principale, lo scorrere del fiume verso l’oceano è accompagnato anche da un libro che condensa più saggi, disegnato da Ok Kyung Yoon, curato da Hilde Teerlinck, editato dalla Fondazione Han Nefkens insieme alla Fundació Joan Miro, al Wiels Contemporary Art Centre di Bruxelles e alla Chisenhale Gallery di Londra – sono questi i due luoghi che ospiteranno l’esposizione in febbraio e giugno – col supporto della galleria Zink Waldkirchen.

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Lei, Thao Nguyen, che si definisce una storyteller («ciò che mi interessa è semplicemente narrare storie») va alla ricerca degli spiriti. O meglio, pedina le tracce «della gloria e della tragedia del Mekong… Il mio è un tentativo di raccogliere testimonianze, catturare sedimenti che la memoria lascerebbe svanire, rendere omaggio a una varietà di specie viventi che vengono sacrificate a causa della costante ricerca dell’umanità di una perpetua luccicanza». In più prosaiche parole, il brillìo seducente del denaro che conduce alla devastazione e alla sparizione di intere civiltà.

Formazione da pittrice in patria, poi studi americani a Chicago con la scoperta dei filmmaker indipendenti, e un background che conta tra i numi tutelari il cineasta thailandese Apichatpong Weerasethakul («mi ha insegnato ad andare alle origini, abbandonando la paura di imbattermi in storie scomode, come per esempio la guerra in Vietnam, buco nero per molti americani») e, altra stella polare, la pioniera e sperimentatrice Joan Jonas, Nguyen Phan è una figura ibrida nel mondo dell’arte, di difficile collocazione. Per prima cosa, le sue risonanze sono letterarie; da piccola, l’autrice si immergeva nei romanzi russi e cinesi e nelle favole del suo paese. Sua «bibbia» di formazione è stato quel Platero y yo dello spagnolo Juan Ramón Jiménez, libro per l’infanzia e non solo, che rievoca l’amicizia fra un mite asinello e il suo padrone umano.

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Anche Becoming Alluvium è una costellazione di richiami «classici» e non disdegna neanche la voce dei colonizzatori, come dimostra il brano recitato nel video estrapolato dall’Amante della francese Marguerite Duras. Sul precedente Mute Grain si allungava invece l’ombra lirica del giapponese Yasunari Kawabata con i suoi Racconti in un palmo di mano, dove la parola evocava un’immagine e la sua immediata apparizione.
L’altro personalissimo approccio vede Thao Nguyen cooperare in progetti di arte collettiva, in contatto stretto con le popolazioni indigene che vivono lungo il fiume. Fra questi, ci sono i Jrai, abitanti di un piccolo villaggio da cui proviene anche suo marito: ogni estate, dividendo il tempo con loro, l’artista si nutre delle tradizioni millenarie ereditate dagli antenati. Impara a non entrare in conflitto con la natura e a convivere con le sue stagioni, in pacifica armonia, rispettando anche i detriti e i suoi scarti. Ma, come spiega, qualcosa si è rotto ormai. Per combattere la fame, il governo vietnamita, fin dagli anni Novanta del secolo scorso, ha indotto una veloce industrializzazione del paese. Fertilizzanti, pesticidi, fabbriche hanno rubato la scena al paesaggio selvatico e se da un lato le carestie sono state scongiurate, dall’altro «la regione a sud sconta in modo drammatico la deforestazione e il fatto di essere stata scelta come triangolo commerciale per le coltivazioni di caffè, pepe e caucciù».

Il mutamento è sconfortante. È anche per questo motivo che Thao Nguyen Phan considera il suo lavoro come un’espressione di una «responsabilità ecologica». È qualcosa che riguarda un’attitudine, una modalità di contemplazione dell’ambiente circostante (che molto deve alla filosofia buddista).
Il Mekong di quell’elegia rurale che è Becoming Alluvium diventa così un seme germinale, un luogo sospeso tra mito e everyday, passato e presente. Accoglie le anime reincarnate di due fratelli morti nel disastro della diga del 2018 che sommerse interi villaggi. Loro si parlano, sussurrandosi le loro diverse vite e forme animali. Il realismo magico che impronta ogni scena culmina nel filmato d’animazione finale che riesuma la leggenda della principessa che desiderava un’impossibile corona di rugiada e alla fine, come la sirenetta di Andersen, decide di evaporare nel mare.Un’allegoria dell’evanescenza inarrestabile dei racconti orali che, invece, l’artista raccoglie per non lasciare che si dissolvano negli abissi dello smemoramento.