La carne, la morte e il diavolo, ci ha spiegato una volta per tutte Mario Praz, sono le grandi ossessioni dell’Ottocento romantico, soprattutto di quello tardo, già affetto da quell’autocompiacimento narcisistico e formalistico che chiamiamo decadentismo. Thaïs di Jules Massenet, grand opera andato in scena per la prima volta all’Opéra di Parigi nel 1894 e perfezionato quattro anni dopo, non fa eccezione. Anzi: assieme a Dalila, Salome, Manon, tutte a loro modo discendenti di Torpille di Balzac e di Marguerite di Dumas figlio (poi Violetta di Verdi), Thaïs è carne quando entra in scena come cortigiana bellissima e desiderata, è morte subito dopo quando, guardandosi allo specchio nella famosa aria, la sua vanità si trasforma in vanitas, la sua bellezza in memento mori, è diavolo perché tenta il monaco Athanaël, (auto) proclamato emblema di purezza. Ma come la bellezza deperisce trasformandosi in qualcos’altro, ogni cosa in questa storia nasconde/svela il suo contrario: la morte della carne fa rinascere lo spirito, il diavolo trionfa proprio in chi ha predicato il bene, ma soprattutto l’estasi finale di Thaïs più che alla beatitudine riconciliata di una santa assomiglia alla crisi di una di quelle isteriche che Sigmund Freud descrive negli stessi anni in cui Anatole France scrive il romanzo cui è fedelmente ispirata il libretto di Louis Gallet che Massenet riveste di una partitura colma di preziosismi parnassiani ed esotismi fin de siècle.

AL TEATRO ALLA SCALA di Milano Thaïs mancava da ottant’anni esatti, dall’unico e mai replicato allestimento del 1942. Lo spettacolo in scena fino al 2 marzo vede sul podio il giovanissimo Lorenzo Viotti, cui sembra che il teatro milanese stia dando mandato di rispolverare l’opera francese. Il rispolvero in questo caso, diversamente da Roméo ed Juliette di Charles Gounod di qualche anno fa, riesce assai bene: le liquidità e le prelibatezze della partitura sono tutte a disposizione dello spettatore, che Viotti incanta senza ricorrere alle scorciatoie dell’estenuazione e del languore che pure Massenet costeggia tutto il tempo, contenuti da una limpidezza dei suoni benissimo calibrata e da ritmi che non si avvoltolano mai su se stessi. Marina Rebeka presta alla protagonista la sua voce potente, sfogata, versatile, e la sua presenza scenica sempre interiorizzata: i suoi forti sono proiettati dove ce li si aspetta, i pianissimi si spingono persino oltre, portando la freccia dell’emozione al bersaglio. Intenso e struggente anche l’Athanaël di Lucas Meachem, istrionico e trascinante il Nicias in drag di Giovanni Sala. A fuoco anche Caterina Sala, Anna-Doris Capitelli, Valentina Pluzhnikova, Federica Guida e il coro, tutti impegnati ad animare la macchina scenica opulentissima predisposta da Pierre-André Weitz e a dare un senso alla regia di Oliver Py, che trasla il tema della tentazione biblica in atmosfere a metà tra Salon Kitty e Moulin Rouge, dando fondo a un immaginario che coniuga avanspettacolo e camp, racconto edificante e tentazione iconoclasta.