Per il terzo giorno di fila, decine di migliaia di persone sono scese in strada a Bangkok per chiedere le dimissioni del governo del Generale Prayuth Chan-o-Cha, una nuova costituzione e una riforma legale, politica, ed economica della monarchia thailandese.

AD INIZIO ESTATE, quando la mobilitazione ha mosso i suoi primi passi, la protesta era perlopiù animata da studenti e studentesse, organizzati attraverso i social media e focalizzati sulla produzione di meme e performance politiche volte a criticare lo status quo.

La loro rabbia generazionale, cresciuta sotto la morsa di un governo militare salito al potere attraverso un colpo di stato nel 2014, ratificato da una elezione di discutibile legittimità nel 2019 e incapace di rispondere ad una crisi economica solo peggiorata dal Covid, era rivolta perlopiù contro Prayuth e la struttura legislativa che aveva permesso la sua presa di potere.

Largamente ignorate dal governo, le loro richieste hanno cominciato a mutare ad agosto, quando Panusaya Sithijirawattanakul, una studentessa di 21 anni, ha letto, di fronte ad una piazza gremita, un documento destinato a fare la storia del paese.

«LA PAURA MI RONZAVA dentro, una profonda paura delle possibili conseguenze» ha detto Panusaya ai microfoni della Bbc, ripensando ai momenti prima di salire sul palco. «Sapevo che la mia vita non sarebbe più stata la stessa». Con questi sentimenti nell’animo, Panusaya ha letto con voce sicura una serie di richieste senza precedenti: togliere l’immunità legale al monarca, eliminare la legge di lesa maestà (che colpisce ogni critica alla monarchia con 3 a 15 anni di detenzione), tagliare i fondi, le proprietà e le tasse destinate alla monarchia, rendere i suoi investimenti trasparenti e tassabili, proibire ai membri della famiglia reale di esprimere pareri politici, sospendere ogni forma di propaganda monarchica, investigare la scomparsa negli scorsi anni di vari critici della monarchia e rendere illegale per il monarca dare supporto ad un colpo di stato. «Non sapevamo come la folla avrebbe reagito. Se la gente non fosse stata d’accordo» ricorda nervosa, «sarebbe stata la fine».

UNA DICHIARAZIONE PUBBLICA di questa portata non si vedeva in Thailandia da gli anni ’30, quando un gruppo di giovani burocrati, a cui il movimento studentesco si rifà, aveva messo fine alla monarchia assoluta, con il benestare di larghe porzioni delle forze militari.
Oggi, invece, i militari si arroccano intorno al monarca e vedono la preservazione del suo potere come indispensabile per il mantenimento del loro. Al netto di questa trasformazione e delle conseguenze legali di una critica alla monarchia, il timore di Panusaya era più che legittimo. Eppure, si è rivelato infondato.

LE 10 RICHIESTE, invece che allontanare i supporter dal movimento, li ha galvanizzati allargandone la base ben oltre gli studenti, attirando operai, colletti bianchi, gruppi di varie generazioni e classi sociali, incluso alcuni attivisti delle camicie rosse, un movimento popolare che aveva riempito le strade nel 2010 ma è rimasto perlopiù assopito dopo il colpo di stato del 2014. Il 14 ottobre, a dimostrazione di questo allargamento, decine di migliaia di persone si sono presentate di fronte al palazzo del governo a chiederne le dimissioni.

IL GENERALE PRAYUTH, deciso a fare sfogare la protesta senza accoglierne le richieste, ha risposto il giorno successivo dichiarando uno stato di emergenza che proibisce ogni assembramento di più di 5 persone, arrestando i leader della protesta, inclusa Panusaya, e minacciando repressione violenta.

Nonostante il decreto, gli arresti, e le tecniche intimidatorie del primo ministro, che il 16 ottobre ha prima ricordato ai manifestanti che tutti possiamo morire da un momento all’altro, invitandoli a non scherzare con Pra Yom, la divinità della morte, e li ha poi attaccati con cannoni d’acqua e lacrimogeni, le proteste non solo continuano, ma si ingrandiscono, diventando di giorno in giorno più radicali e dirette negli attacchi al monarca, divenuto oramai, al pari di Prayuth, il bersaglio principale dei manifestanti.

Vista dall’Italia questa potrebbe sembrare la conclusione ovvia, e quasi naturale, degli scorsi due decenni di lotta politica in Thailandia in cui la monarchia thailandese ha sempre preso le parti dei militari nella lotta tra forze democratiche e spinte autoritarie.

Eppure, nel contesto thailandese, questo è un cambiamento epocale, una trasformazione repentina e profondissima a cui molti fanno fatica ad accettare. Durante le manifestazioni del 14 ottobre, quasi a mo’ di provocazione, la famiglia reale ha attraversato in macchina la protesta e, per la prima volta nella storia thailandese, la Rolls Royce gialla di un monarca si è trovata circondata da una folla che gli urlava contro, insultandolo e rivendicando che la sua vettura fosse pagata dalle loro tasse.

IL GIORNO SUCCESSIVO, durante un’altra protesta in violazione dello stato di emergenza imposto da Prayuth, migliaia di persone continuavano a gridare all’unisono insulti fortissimi contro il re, grida che imbarazzano i giornalisti locali, costretti a interrompere dirette, registrare multiple volte gli stessi interventi, o cancellare i loro audio, nel tentativo di non diffondere ulteriormente queste parole, impauriti di essere loro stessi accusati di lesa maestà o sedizione.

A prescindere da quelle che saranno le conseguenze a breve termine di queste proteste, queste grida, divenuta da un giorno all’altro la nuova normalità, rappresentano un cambiamento epocale per il paese: la sorprendente e improvvisa disgregazione dell’egemonia monarchica, un’ideologia politica che ha dominato il paese fin della guerra fredda e che ora, così come i muri che simboleggiavano quel conflitto, si sta sgretolando, ricordandoci, se ce ne fosse bisogno, che anche l’edificio apparentemente più stabile può crollare da un momento all’altro.

(Autore de “La Fragilità del Potere: mobilità e mobilitazione a Bangkok” in uscita il 22 ottobre per Meltemi)