Il disegno di legge costituzionale che il governo ha presentato al senato l’8 aprile è la terza versione della riforma del bicameralismo annunciata da Renzi già a gennaio. Va ancora corretto in più punti: la nomina dei senatori «per altissimi meriti», la parità tra sindaci e consiglieri regionali, il rapporto tra rappresentanti di una regione e cittadini residenti, le modalità di nomina del presidente della Repubblica… Tutto questo per esplicita ammissione del governo, che anzi si è tenuto un margine proprio per non dare l’impressione di rifiutare i suggerimenti dei senatori. Ma giunti al primo passaggio delicato in commissione affari costituzionali, il governo ieri si è impuntato e pretende adesso che il suo testo – pur così sbagliato e fatto a pezzi dal dibattito (41 interventi contrari su 46) – sia assunto come testo base. Una questione di principio o più probabilmente di campagna elettorale. Perché Renzi, che non riuscirà a far approvare il disegno di legge dal senato entro il 25 maggio, vuole almeno poter ripetere in tv e nei comizi che la commissione ha approvato il suo testo base.

È ancora palazzo Chigi a dettare i tempi e i modi della discussione parlamentare, sostituendosi ai relatori. La soluzione individuata per far ingoiare – forse oggi – ai senatori un testo che non piace alla maggioranza e non ha i voti, è un capolavoro di ipocrisia parlamentare. Al testo base sarà accoppiata un ordine del giorno che servirà a smentirlo, riconoscendo che su alcuni punti e soprattutto su quello decisivo della composizione del nuovo senato non c’è accordo. La mediazione proposta da Renzi, quella cioè di far scegliere a ogni regione il suo sistema di nomina o elezione dei senatori, è già consegnata agli archivi del dibattito. Nella sezione amenità.

Ieri il presidente del Consiglio e la ministra delle riforme hanno ascoltato gli esperti. Le conclusioni di Maria Elena Boschi dopo quattro ore di interventi sono state di questo tenore: «Grazie, mi pare ci sia un consenso generale sulla proposta del governo, non di tutti ma del resto non c’è unanimità nemmeno tra voi costituzionalisti, non perdiamoci di vista». La sintesi di un’agenzia di stampa incontra le intenzioni con le quali il Pd ha organizzato questo seminario – a porte chiuse ma in diretta streaming – sulle riforme costituzionali: «Boschi fa la pace con i professori». Per la verità con i professori intervenuti non aveva mai litigato; lo scontro era stato con i costituzionalisti che nei progetti di Renzi sul bicameralismo avevano visto il rischio di una «svolta autoritaria» e che prima ancora avevano firmato un appello contro la legge elettorale cosiddetta Italicum. Alcuni di quei «professoroni» non sono stati invitati al confronto di ieri, altri – Rodotà e Zagrebelsky – hanno preferito non andare. Il risultato è stato, in effetti, un «generale consenso». Con qualche punta critica, ma molto spostata sul «lato B» della riforma, quel Titolo V che è oggetto di minori attenzioni ma che pure corregge il regionalismo spinto del 2001 con un neo centralismo.

Netta la contrarietà sul punto dell’ex presidente della Corte Costituzionale Ugo De Siervo, che al seminario ha portato l’esperienza di chi è finito travolto dalle controversie tra stato e regioni. Ha accusato il governo di intervenire «con la sciabola» nella scelta tra le materie di competenza esclusiva e quelle concorrenti, come se «non fosse cosciente delle conseguenze». Persino l’ex presidente della regione Toscana Claudio Martini, cioè il senatore indicato dalla maggioranza renziana come il coordinatore-filtro degli emendamenti del Pd al testo del governo, ha demolito le soluzioni proposte dall’esecutivo.

Quanto alla composizione del nuovo senato, le critiche si sono appuntate là dove le aveva indirizzate la ministra, che ormai da settimane va spiegando di essere tornata indietro sui 21 senatori di nomina quirinalizia (ne resteranno cinque) e sulla rappresentanza equivalente delle regioni (il numero dei senatori sarà legato alla popolazione residente). Salvo poche eccezioni, i costituzionalisti hanno bocciato la parità tra sindaci e consiglieri regionali, sulla quale però Renzi ha già fatto marcia indietro. Solo Andrea Pertici, il professore che con Pippo Civati ha scritto una proposta di legge costituzionale alternativa, ha insistito per l’elezione diretta della totalità o della grande maggioranza dei senatori. Mentre Valerio Onida ha esordito ricordando a Renzi che «non si fanno le riforme per risparmiare». Ma poi ha nascosto le sue critiche all’interno di una generale adesione al progetto del senato non elettivo, perché rappresentativo non dei cittadini ma delle istituzioni regionali. Coerenza impone – ha però spiegato Onida – che ai senatori di una stessa regione non sia consentito votare in maniera difforme. Come accade in Germania. Ma come il governo Renzi, che ha il problema di tenere legati alla riforma centristi e berlusconiani, non potrà mai fare.