L’occasione è stato l’anniversario, il 3 ottobre, dell’assassinio di Moreno Locatelli a cui Giancarlo Bocchi ha dedicato il documentario Morte di un pacifista, che nel 1996 ha ricevuto il Premio Trieste per il Nuovo Cinema Europeo, rimontato e aggiornato nel 2000 in una versione più lunga ed ora in una terza versione quasi completata, poiché sono emersi nuovi materiali, nuove testimonianze. Come le riprese dell’operazione chirurgica fatta a Locatelli dopo il ferimento, che il regista ha scoperto essere stata effettuata dal medico che era anche amico dell’assassino di Locatelli. Uscirà con film anche il libro Il Guerriero e il Pacifista che racconta del destino segnato, durante le drammatiche giornate dell’ottobre del 1993, di Locatelli e del suo carnefice, il guerriero e criminale musulmano Musan Topalovic «Caco», legato al clan Izetbegovic’. Ci facciamo raccontare dal regista che ha seguito fin dall’inizio le vicende dell’assedio raccontandole nei documentari Mille giorni a Sarajevo, Sarajevo terzo millennio, Diario di un assedio e nel film lungometraggio Nemaproblema la storia e le novità che ancora emergono:
«Il 3 ottobre di vent’anni fa, alle ore 13.30, Gabriele Moreno Locatelli veniva falciato da una raffica di mitra mentre partecipava ad un’azione sul ponte Vrbanja, la prima linea del fronte, al centro di Sarajevo, tra i governativi di Aljia Izetbegovic e le forze serbo-boniache di Radovan Karadžic. Il pacifista italiano, prima e unica vittima italiana dell’assedio, moriva poche ore dopo il ferimento per shock emorragico nell’ospedale militare di Sarajevo. Vrbanja era tristemente noto a Sarajevo come «il ponte della morte». In quel luogo simbolico dell’assedio, il 5 aprile del 1992 era stata colpita dai serbo-bosniaci una giovane studentessa musulmana, Suada Dilberovic, la prima vittima dell’assedio. Alcuni mesi prima dell’assassinio di Locatelli, colpiti da una raffica, erano morti abbracciati sul ponte, due fidanzati, Bosko e Admira, un ragazzo serbo-bosniaco e una giovane musulmana che voleva fuggire dall’assedio per rifarsi una vita lontano dalla guerra. I corpi dei due giovani rimasero sul ponte per diversi giorni come monito di una delle due fazioni a chi voleva fuggire all’assedio. Per questo secondo crimine, che suscitò la commozione e l’indignazione dell’opinione pubblica internazionale, venne accusato un musulmano, Musan Topalovic detto «il Comandante Caco» (si legge Zazo) uno degli «eroi-criminali» che spadroneggiavano e infierivano sulla popolazione di Sarajevo con il beneplacito del presidente Aljia Izetbegovic.
Perché a distanza di vent’anni ha voluto riaprire il caso Locatelli, impegnandosi in una nuova ricerca e nella realizzazione di un libro e un film su fatti così lontani?
Non si tratta di un progetto in occasione della ricorrenza, del ventennale. Ultimamente sono emersi nuovi elementi sulla vicenda e certi dettagli che nel 1995 erano piuttosto difficili da interpretare appaiono ora molto chiari. Quando iniziai le ricerche a Sarajevo c’era la guerra. Era impossibile avvicinarsi a quel ponte e c’era molta reticenza. Sapevo però che dietro la morte di Locatelli c’era responsabilità di personaggi molto in alto. Nei mesi scorsi ho pensato che il mio impegno di dare «voce a chi non ce l’ha» non era ancora terminato in Bosnia. Solo pochi criminali sono stati processati e condannati. Altri sono ancora nascosti e annidati dentro le Istituzioni statali bosniache. E Gabriele Moreno Locatelli non ha avuto giustizia… Ci può essere pace senza giustizia?
All’epoca venne aperta un’inchiesta giudiziaria. Ci sono stati indagati, incriminati?
La prima inchiesta venne aperta dalla procura di Como che però non riuscì proseguire il suo lavoro perché l’indagine venne avocata dalla procura di Brescia per competenza territoriale. Dal 1993 al dicembre 1996 non so cosa abbia fatto la Procura di Brescia. Dopo l’uscita del mio film venne riaperta l’inchiesta. Il manifesto pubblicò diversi miei interventi e l’allora ministro della Giustizia Oliviero Diliberto autorizzò la procura di Brescia a procedere per «delitto politico contro un italiano all’estero», ma non ci furono altri risultati. Dopo gli accordi di Dayton arrivarono a Sarajevo centinaia di carabinieri e poliziotti italiani. So che fecero indagini importanti, che seminarono la Bosnia di telecamere e microspie, ma nessuno si occupò del caso Locatelli. Mi rivolsi allora al procuratore del Tribunale dell’Aja, Carla Del Ponte, che mi ringrazio per i materiali che le avevo inviato e mi rispose che avrebbe incaricato la squadra investigativa speciale di indagare sul caso Locatelli. L’Onu ostacolò invece in tutti i modi la mia inchiesta. L’allora vice-segretario Kofi Annan mi rispose che non avevano dossier sul caso Locatelli, né piantine della zona, né registrazioni audio delle conversazioni sulla linea del fronte. Nel libro Professione Peacekeeper, uscito nel 2005, Andrea Angeli che lavorava all’Uno smentì involontariamente Kofi Annan, il suo datore di lavoro. Scrisse di aver chiesto i verbali alla «Civil police» dell’Onu e di averli messi da parte perché «sarebbero, potuti servire… ma nei vari trasferimenti chissà che fine fecero». Alla fine dell’assedio scoprii che esistevano le piantine della zona: le forze francesi dell’Onu avevano assegnato a ogni palazzo di Vrbanja un nome in codice. So che tutti registravano quello che dicevano via radio le varie fazioni in conflitto. Molte di queste registrazioni sono state usate come prove al Tribunale dell’Aja, ma non sono ascoltate per il caso Locatelli. A chi faceva paura che venisse fuori la verità sulla morte di Locatelli?
Ma come mai «Beati I Costruttori di Pace» decisero fare un’azione così rischiosa mettendo a rischio la loro vita sul ponte Vrbanja?
Fu un’azione folle, concepita in fretta, nata da frustrazioni personali, esibizionismo, mancanza di lucidità e senso della realtà. Volevano fare un’azione simbolica contro la guerra, ma in realtà sfondare le linee, senza il permesso di tutte le forze in campo, era un’azione militarista e non certo pacifista. Gabriele Moreno Locatelli era assolutamente contrario alla manifestazione. Disse agli altri quattro: «Non potete definirvi pacifisti voi che non rispettate nemmeno la vostra vita». Decise di andare sul ponte per portare aiuto agli eventuali feriti perché il gruppo aveva messo una regola assurda, militarista-sacrificale: i feriti dovevano essere abbandonati sul posto. Quando Locatelli venne colpito all’inguine e al petto a pochi metri dalla salvezza, come da copione, gli altri quattro gli passarono accanto senza prestargli soccorso.
Chi era Gabriele Moreno Locatelli?
Ho avuto modo di trovare e di leggere molti scritti inediti di Locatelli. Era un giovane altruista, generoso, con una grande umanità e un forte dedizione nei confronti dei più deboli e oppressi. Cercava la «verità» con grande profondità. Era cattolico ma detestava la Chiesa del potere e delle ricchezze. È stato un eroe pur senza cercarlo. Le responsabilità «morali» della sua morte sono di chi promosse un’azione sgangherata, inutile e militarista, don Angelo Cavagna, e di don Albino Bizzotto il «capo» dei «Beati i Costruttori di Pace» che l’autorizzò pur consapevole dei grandi rischi che correvano i partecipanti
L’inchiesta su chi sparò a Locatelli a che punto è arrivata? Ha individuato i responsabili?
Nel pomeriggio del 3 ottobre 1993, le agenzie di stampa diffusero la notizia Locatelli era stato ferito sul ponte Vrbanja di Sarajevo da un «cecchino serbo». Durante l’assedio di Sarajevo i 250 cecchini serbo-bosniaci hanno ammazzato centinaia di persone, tra le quali molti bambini ma nessuno di questi sanguinari assassini è finito davanti ad un Tribunale nazionale e internazionale. Gabriele Moreno Locatelli però non è stato ucciso da «cecchino serbo» nascosto nel nulla. Un cecchino solitamente spara un solo colpo e poi ricarica. Il pacifista italiano venne raggiunto da due proiettili di una raffica di 5 colpi. Già nel 1996 avevo scoperto indizi che indicavano che erano stati gli uomini del «comandante Caco» a sparare su Locatelli. Ora c’è la certezza, come si leggerà nel libro Il Guerriero e il Pacifista e si vedrà nel film Morte di un pacifista. Come in ogni vicenda balcanica «la verità è nascosta sotto un’altra verità». L’assassinio di Gabriele Moreno Locatelli si iscrive in un complotto molto più ampio, in uno scontro interno al potere bosniaco. Il movente dell’assassinio è ormai chiaro e Locatelli non è morto a causa della guerra ma in un vero e proprio agguato studiato e preparato con attenzione e astuzia. Venti giorni dopo la morte di Locatelli arrivò il torbido epilogo anche del suo carnefice «Il comandante Caco» che fu arrestato, torturato e ucciso senza processo con un colpo alle spalle. Era stata fatta giustizia? «Caco» era stato l’autore materiale di orrendi crimini, di rapimenti, estorsioni, dell’eccidio della «Buca del diavolo» di Kazani, dove vennero rinvenuti i corpi decapitati di più di trenta serbo-bosniaci. Ma chi erano i mandanti delle azioni criminali di «Caco»? Uno dei suoi migliori amici era l’attuale presidente della Bosnia, Bakir Izetbegovic, il figlio di quello che «Caco» chiamava «il nonno»: il presidente Aljia Izetbegovic.

Il libro Il Guerriero e il pacifista e il film documentario Morte di un pacifista di Giancarlo Bocchi sono due iniziative di IMPLIBRI, autofinanziate tramite crowfunding sul web. Chi è interessato a partecipare all’iniziativa di autofinanziamento può trovare tutte le informazioni utili e le modalità di partecipazione sul sito internazionale Verkami alla pagina http://www.verkami.com/projects/6558-il-guerriero-e-il-pacifista