Dopo la discesa agli inferi, in genere si può risalire a vedere le stelle. Ma può anche capitare di rimanere disorientati, accecati da troppa oscurità, intrappolati in uno spazio buio, dove ombra e luce danzano tra presagi sinistri e promesse future. Senza più essere in grado di indovinare, in mezzo a scheletri architettonici, residui di corridoi, vicoli ciechi, improvvisi rialzi di temperatura (identica a quella del corpo così come le misure in altezza delle costruzioni che si incontrano), quale sia la direzione da prendere. I sensi si allertano, udito vista tatto intrecciano le loro competenze per decifrare un percorso privo di segnaletica, labirintico e, dunque, ad alto tasso di claustrofobia.

IL SET TEATRALE è beckettiano e offre un malinconico smarrimento di sé. Siamo catapultati nelle navate del Pirelli HangarBicocca di Milano dall’artista polacco Miroslaw Balka, che, con la mostra Crossover/s (visitabile fino al 30 luglio, a cura di Vicente Todolí), invita tutti a fare «esperienza, a sentire l’esposizione, a mettersi alla prova. L’importante è vivere lo spazio, dando ascolto alle proprie emozioni». Balka è talmente convinto che ognuno debba trasformarsi in un testimone attivo che non ama accompagnare nessuno fra le sue installazioni. Così, si va da soli, sprigionando memorie, paure, sogni, scottandosi le mani con il sipario che emana calore; oppure scompigliando i pensieri con i ventilatori che sollevano folate dentro l’impressionante gabbia-sentiero Cruzamento (del 2007). Sebbene i titoli delle opere rimandino spesso alle proporzioni umane, le installazioni siano «modellate» con una misura antropocentrica, quel viaggio fra le rovine e le «decostruzioni» del tempo non prevede nessuna presenza. L’incrocio previsto dalla mostra non è affollato, contempla solo il bilico – fra luce e buio, vita e morte, sensazioni e indifferenza. «Quando attraversa un contesto spaziale come questo – spiega Miroslaw Balka – il pubblico diventa una sorta di scultura vivente, è corpo collettivo: le strutture hanno la funzione di dispositivi, attivano risposte ed emozioni».

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[object Object],. Foto di Lorenzo Palmieri

LA STORIA CHE RACCONTA l’artista, nato a Varsavia nel 1958, è quella di una terra desolata (uno dei riferimenti è proprio Eliot col suo poemetto dedicato alla desertificazione dell’umano, come ci confessa lui stesso) in cui il viandante, chi si trova ad aggirarsi lungo i suoi scivolosi confini, cerca di riaccendere la luce, di diradare l’oscurità. «Viviamo un presente difficile, non solo in Europa. L’arte, in un periodo di crisi come questa, può molto più delle parole, è efficace, diretta. Le giovani generazioni sono abituate al linguaggio iconico, è il loro mondo: c’è oggi una consonanza con il Medioevo, quando le figure affrescate, che tutti potevano leggere come testo pittorico, fecero esplodere la nuova iconografia cristiana».
La sede dell’HangarBicocca ospita una antologica dove si vedono sfilare trent’anni di lavori di un artista che iniziò con la pittura (anche figurativa) per approdare a un palcoscenico esistenzialista in cui a parlare sono soprattutto i «resti», le geometriche ossature di architetture inquietanti. Il risultato è un paesaggio disabitato, disseminato di anti-monumenti, corridoi percorribili e passaggi che invitano a una riflessione intorno all’obbligo della propria metamorfosi: dalla vita alla morte, dalla stagione dell’infanzia al crepuscolo della vecchiaia.

Molte delle costruzioni residuali di Balka sono precarie e effimere, come la colonna di saponi usati (che tanto ricorda la Colonna senza fine di Brancusi), o stilizzate, come Zoo/T che riproduce in scala il serraglio di Treblinka, luogo di divertimento per la famiglia del comandante delle SS (ed è singolare che la memoria dei campi di sterminio venga spesso rappresentata attraverso gli animali, come accade in Bambi, con i cervi al di là del filo spinato, persi nella neve). Tutte sono scosse da un dramma vissuto prima ancora che siano percepite: a connotarle, c’è qualcosa di già accaduto, un’inesorabile apocalisse si è abbattuta su quel mondo. Anche il sapone forse è un simbolo tragico?

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BALKA DISSENTE da questa interpretazione: quel suo assemblare pezzi di saponette prese dalle case polacche non ha niente a che vedere con le macabre narrazioni dell’Olocausto. Anche i 178 zerbini che formano un pavimento poverissimo (prelevati da un quartiere periferico di Cracovia) segnano, ancora una volta, un passaggio, sono una soglia.
«Con il sapone mi riferisco casomai a un gesto primitivo, nel senso che è comune a tutti: strofinarlo per lavarsi è un’azione che fanno anche i bambini, senza essere istruiti. In quella purificazione di sé si accede a un altro stato. Ci si trasforma in scultori, si manipola la materia, il sapone cambia forma necessariamente e il suo destino è sparire». Allora, la colonna – unica nota di colore in spazi inghiottiti dalla notte – è un memento mori, nonostante la piacevolezza della materia e il suo profumo. L’impermanenza delle età della vita è rappresentata da un oggetto anonimo che ha attraversato i secoli. Ed è sempre il bordo, l’idea di confine, di una certa emergenza che arde lungo i margini, a risvegliare l’arte di Balka.

LUI, SODALE del sociologo polacco Zygmunt Bauman (con il quale ha anche pubblicato un intenso dialogo/intervista, ora in via di pubblicazione in inglese), guarda all’Europa con disincanto. «I politici devono capire che non esiste nessun passato mitico, non si può tornare indietro. Tutto è mutato e il concetto di ’retrotopia’, appunto lo stato utopico collocato nel passato, va superato. Per riaccendere la luce che si è spenta, bisogna saper vedere le cose in modo differente, senza lanciare promesse impossibili di cammini a ritroso».
I tempi presenti, però, sono avvolti dal color pece. Lo dimostra anche la fontana di Wege zur Behandlung von Schmerzen – nelle fiabe spesso sorgente miracolosa e rigenerante – la cui acqua nera scroscia nelle navate dell’HangarBicocca, con un suono sordo, a tratti malefico. La vasca rovesciata in terra sovverte la tradizione monumentale ed enfatizza il suo peso. Il suo zampillo è putrido, inquinato, per niente salvifico.

 

SCHEDA

All’HangarBicocca, fino al 9 aprile, si può visitare pure la mostra «GDM – Grand Dad’s Visitor Center» della francese Laure Prouvost, che presenta un’opera d’arte totale: oltre quindici lavori – installazioni, video, proiezioni, sculture e objet trouvé -, sono proposti tutti insieme e danno vita a un caotico museo dedicato al nonno dell’artista stessa. Il percorso è concepito come una immersione profonda in mondi immaginari, ironici, pieni di non sense e promette una densa esperienza onirica. Via via, si incontrano saloni di bellezza, stanze inclinate, labirinti, c’è anche un’area in cui viene offerto il tè e una zona per il karaoke. Il progetto si ispira alla presunta storia del nonno di Laure Prouvost, artista concettuale e amico di Schwitters: si narra che, scavando un lungo tunnel tra il suo studio e l’Africa, un giorno non ne fece più ritorno, lasciando la moglie (nonna di Laure) unica custode delle sue opere.