L’immagine del Qoelet, per cui la vanità dell’esistenza e la sua inconsistenza essenziale si esemplificano nell’espressione «inseguire il vento», dunque nel cercare di afferrare ciò che non ha forma e perciò nemmeno senso, viene richiamata da Georges Minois in apertura del suo Storia del mal di vivere Dalla malinconia alla depressione (traduzione di Manuela Carbone, Dedalo, pp. 352, € 30,00) e rende perfettamente l’idea del dramma e del destino della vita umana.

Dalle testimonianze più antiche, chiamate in causa dall’autore, e cioè quelle egiziane e persiane, fino a quelle a noi contemporanee, il lettore incontra quel che il titolo promette: una dolorosa antologia di domande sul perché l’uomo possa, a buon diritto, pensare di mettere fine al più presto alla propria esistenza. Dall’idea originaria secondo cui nulla davvero si può per scampare alla propria fine, il viaggio nella storia ci porta alla risoluzione esistenzialista e nichilista secondo la quale è la stessa libertà dell’uomo, nella sua sconfinata apertura al possibile, a rappresentare incessantemente dinanzi agli occhi del singolo la propria inadeguatezza a tanta apertura, e dunque a renderla potenzialmente insopportabile. Ma, a ben guardare, il sentimento di fondo resta quello del primo anonimo testimone che Minois cita nel suo volume: «colui che miete uomini mi porterà via comunque».

Con buona pace della filosofia e delle scienze, anche teologiche, questo sentimento è immutato nel tempo. La rassegnazione è la risposta? Oppure disperazione, pessimismo, e infine la stessa depressione non abbisognano che di una spiegazione medico-razionale, psicologica, e, infine, di un «trattamento» capace di lenire il mal di vivere, che faccia sì che il mondo vada comunque avanti (pensiamo a Schopenhaeur e non solo)? O il mal di vivere è altro da una malattia (e dunque non lo si può «trattare» come se lo fosse)?

Leggendo il testo di Minois, che raccoglie le più svariate testimonianze, si rimane attratti dal suo trascorrere da un ambito della vita ad un altro, senza sostare: non è peraltro facile stabilire se, come talvolta è stato detto e come lo stesso Minois sembri pensare, la malinconia sia «appannaggio» di persone non pressate da affanni concreti dell’esistenza, che dunque potrebbero «permettersi» di essersi malinconici, a differenza di altri. Proprio perché la malinconia sfugge costitutivamente a qualunque presa, la sua complessità sfugge a ciò che una «sua» storia permette di comprendere. Minois dedica una lunga digressione alle ragioni pro o contro il suicidio nella civiltà romana, dove il taedium vitae viene affrontato in modo quasi esclusivamente individuale, come peraltro la scelta suicida.

Individuale è tuttavia anche la motivazione dei Pitagorici, secondo i quali la decisione di togliersi la vita, spezzando in maniera arbitraria il nesso corpo-anima, impedirebbe all’anima reincarnata di compiere il proprio destino. Da ciò, forse, anche la scelta di cosa fare del corpo di chi si è ucciso, se seppellirlo, concedergli un funerale, o meno.
L’accostamento di accidia e taedium vitae in epoca cristiana (dunque, fino a noi) pone altresì la questione se si tratti della stessa cosa, ma: quale cosa? Isidoro di Siviglia propone di derivare etimologicamente melancholia da malus e quest’ultimo da melan, il nero della bile in greco, tentativo interessante quanto però fantasioso, finalizzato a far rientrare la malinconia nella sfera del peccato indotto o comunque funzionale all’azione del demonio.

Il rimedio? Spesso il lavoro, l’opera (per alcuni, il sesso). Ma di rimedio o di rinvio si tratta? Tra Melancholia I di Dürer (1514) e Anatomia della malinconia di Robert Burton (1621), si snoda quello che Minois chiama il secolo della malinconia; la trasformabilità del taedium vitae fa sì che quanto gli corrisponde invada l’umanità, rafforzandosi nei tanti nomi che prende via via: inquietudine, ipocondria, spleen, noia. Gli storici hanno un bel da fare nell’intento di ricostruire ogni occorrenza (poetica e non) in cui la malinconia si affaccia, ma resta la domanda se il mondo moderno sia più noioso dell’antico, e non poterlo sapere è forse un bene.