Come appare evidente, l’attentato di Istanbul ha cambiato le carte in tavola del conflitto in corso. È infatti il primo in territorio turco che si ritorce direttamente contro gli interessi del regime di Erdogan e dell’Akp, il partito islamista moderato al potere. Diversamente dall’attentato di Ankara dell’ottobre scorso, una strage di stato contro una marcia pacifista della sinistra e dei kurdi che ha provocato più di cento vittime già dimenticate con le indagini sulle responsabilità.

Così ora non c’è giornale o media che si rispetti che non indichi l’agguato kamikaze a Sultanahmet – ai margini del massacro in Siria – come «il conto» che lo Stato islamico presenta al Sultano Erdogan, il leader che ha istruito le milizie dell’Isis sui campi di battaglia dell’intera regione mediorientale. Purtroppo è una mezza verità, poco meno di un esercizio di retorica vuota, da testa o «testata» di turco. Dunque non basta, anzi.

In primo luogo perché i giornaloni che ora scoprono questa «sensazionale» verità – che qualcuno ripete in solitudine da quattro anni – sono gli stessi che, sempre accreditando la guerra, erano saliti sugli aerei della Nato quando bombardava la Libia di Gheddafi, o sul carro della rivolta armata contro il regime di Assad, chi incitando alla guerriglia, chi baciando bandiere dei rivoltosi, sempre accreditando la guerra che dilaniava quei Paesi. E non importava si trattasse di forze più o meno democratiche o di jihadisti estremi, magari legati ad al-Qaeda e poi al Califfato dilagante dall’Iraq distrutto dalla precedente guerra di Bush. Decisiva per la nascita dello Stato islamico e a suo tempo anche quella sponsorizzata dagli stessi giornaloni indipendentemente filogovernativi che oggi propongono editoriali «luminosi» su Erdogan.

In secondo luogo perché a forza di indicare le uniche malefatte del premier di Ankara, si nascondono quelle del raffinato Occidente «pagatore», europeo ed americano. Vale a dire il ruolo dell’Alleanza atlantica della quale la Turchia è il baluardo mediorientale. Perché Erdogan, che sembra non voler fare la fine del limone spremuto come fu per Saddam Hussein, non ha mosso un dito nella regione senza che la Nato sapesse e approvasse.

Dalla guerra in corso contro i kurdi del Pkk, del Rojava in Siria, a quelli in Iraq, al posizionamento provocatorio a Mosul, fino alla strage di Ankara attribuita sbrigativamente alla manovalanza dell’Isis che però da troppo tempo è controllata dai Servizi turchi. Senza dimenticare l’abbattimento del jet russo.

E ancora nell’elenco di malefatte, la gestione dell’addestramento nelle basi della Nato degli insorti inutilmente finanziati da Usa e Arabia saudita, visti i rovesci subiti, per passare al traffico di petrolio, testimoniato da inchieste giornalistiche con tanto di reporter subito incarcerati. E al traffico di armi e profughi; fino al transito dei foreign fighters arrivati per la maggior parte da decine di capitali europee nel silenzio assoluto delle intelligence nostrane.

Adesso, solo adesso, scrivono che «il Califfo chiede conto al Sultano». Ma il Sultano era ed è atlantico. E, ahimé, il conto ci riguarda.

E ci riguarderà sempre di più se l’attuale «non belligeranza» italiana diventerà avventurismo militare in Libia, sempre suggerito dal giornalismo embedded. Che impegna subito e a tutti i costi il governo Renzi a trasformare un trasporto al Celio di feriti dell’ultimo attentato a Misurata rivendicato dall’Isis, come fosse la prova generale del nuovo intervento armato italiano. Naturalmente «contro gli scafisti», cioè perché un governo libico inventato di sana pianta diventi garante del «posto sicuro» per rinchiudere in nuovi campi i migranti e fermare così la loro disperazione.

Il tutto sulle ceneri caldissime dell’ultimo disastro della guerra del 2011 e della memoria, lì difficilmente oscurabile e cancellabile – e più pericolosa se ricordata «con rigore» provocatorio e minaccioso dall’Isis, com’è accaduto ieri – delle imprese criminali del colonialismo italiano.