Quante persone sono state davvero infettate dal virus della Sars-Cov-2? La domanda assilla politici e scienziati in queste convulse settimane. Tutti sanno che i numeri che snocciolano i responsabili di ogni Paese nel quotidiano appuntamento con l’orrore sono solo la punta dell’iceberg: i test che sono stati effettuati sinora non sono stati fatti con l’obiettivo di tracciare un quadro delle persone che sono entrate in contatto con il virus. All’inizio, i tamponi venivano fatti solo a chi presentava dei sintomi, e neanche a tutti. In Spagna, il governo, con l’aiuto dell’Istituto nazionale di statistica, sta disegnando un protocollo per esaminare nelle prossime settimane 30 mila famiglie proprio con l’obiettivo di fornire uno strumento statistico (un po’ come un’inchiesta elettorale) che dia al governo un quadro della situazione.

QUANDO ANCORA molti dirigenti politici non avevano capito la portata della crisi, alcuni, come il premier britannico Boris Johnson, predicavano l’idea che fosse meglio ammalarsi per immunizzarsi. Si tratta della cosiddetta «immunità di gregge» o «di comunità» come dice l’immunologo Alberto Mantovani: è il modo in cui i vaccini ci proteggono dall’esplosione ciclica di epidemie di morbillo, rosolia o pertosse. Grazie a loro, i nostri sistemi immunitari sono preparati a riconoscere l’agente patogeno e a bloccarlo. Poiché oggi non esiste un vaccino contro il Covid19, l’idea cinica era che si poteva affrontare l’ondata pandemica con qualche vittima e una maggioranza di persone che avrebbero superato la malattia senza gravi conseguenze. Peccato che, come ora sappiamo bene, questo avrebbe causato non solo un numero straordinario di vittime, ma anche un collasso dei sistemi sanitari peggiore di quello di cui siamo stati testimoni. Il confinamento a cui è sottoposta metà della popolazione mondiale è per ora l’unica strategia per rallentare la diffusione del virus.

MA ORA CHE I «TEST RAPIDI», quelli che rilevano se c’è stata una risposta immunitaria, iniziano a prendere piede, la questione torna a essere centrale. Cosa implica che il sistema immunitario sia entrato in contatto con il virus? Alcuni “positivi” potrebbero pensare che sono al sicuro. Ci sono Paesi come la Germania che hanno addirittura proposto di istituire una sorta di «passaporto sierologico»: chi è entrato in contatto col virus potrebbe, per esempio, tornare al lavoro. Il virologo Andrea Crisanti mercoledì su El País definiva questa idea «un’enorme stupidaggine» perché «non sappiamo se gli anticorpi sono attivi, quanto durano e né se aver superato l’infezione protegge». Per ora, sono stati segnalati solo alcuni casi non confermati in Cina e Corea del Sud di riammalati. Non sappiamo quanto dura l’immunità: nei due virus parenti di Sars-Cov-2, il Sars del 2002 e il Mers del 2015, l’immunità dura fra i due e i tre anni. Ma non è chiaro quanto davvero protettiva sia.

IL FATTO DI SCOPRIRE un anticorpo specifico, poi, non vuol dire che quell’anticorpo sia efficace. Non è lo stesso saper fare lo sgambetto a un nemico che saperlo colpire alla testa. Forse se il sistema immunitario sa riconoscere il virus, la seconda volta i sintomi saranno più leggeri. Ma non è detto. Anche l’influenza torna ogni anno. Ma è ogni volta diversa: i vaccini antinfluenzali che prepariamo fanno una previsione su come cambia il virus, ma non debellano la malattia. Non conferiscono «immunità di gregge». E poi: che concentrazione di anticorpi è necessaria per reagire al virus? Anche questo non è ancora noto. Sono solo tre mesi e mezzo che la comunità scientifica sta lavorando su questo virus, e nel mezzo della più grave pandemia che si ricordi.

I TEST SIEROLOGICI oltretutto non sono infallibili. Per ragioni statistiche, se il test identifica correttamente il 94% delle persone con gli anticorpi anti-Covid19, e il 96% di quelli che non li hanno, e nella popolazione ci sono un 5% di infettati, la persona che dà positivo è davvero positivo solo nella metà dei casi. Solo se gli infettati nella popolazione sono di più, la precisione aumenta. E per il momento questo dato lo ignoriamo.

Non sappiamo ancora né se tutti i pazienti generano anticorpi, né quanti, né per quanto tempo e neppure se questi anticorpi saranno sufficienti a proteggerci. Manteniamo le precauzioni e diamo tempo alla ricerca per darci qualche possibile risposta.