Il lavoro delle donne che migrano in altro paese, lingua e costumi – per bisogno, coercizione politica, disagio ambientale, o per scelta – condivide i caratteri del lavoro femminile (precarietà, sfruttamento, invisibilità) aggravati da subalternità e condizioni sociali insicure e talvolta illegali, con una maggiore incidenza del sommerso e del mancato riconoscimento. Tuttavia permette margini di espressione ed emancipazione come via a un senso di appartenenza alla nuova cultura e assieme di autonomia rispetto a quella di origine.
Le fluttuazioni identitarie tra lingue, storie e culture diverse e i disagi di una doppia o multipla non-appartenenza si tramutano in consapevolezza e agentività. Il lavoro, con tutti i suoi limiti, è l’uscita da una condizione di isolamento e abbandono, che è quella riservata alle «straniere», considerate tali nell’Italia di oggi, anche quando non lo sono.

CENTRALE è il lavoro di «badante» come viene definito, il più diffuso tra le immigrate degli ultimi decenni in Italia; accanto a quello di raccolta nei campi, è il più nascosto, più facilmente illegale o in nero, spesso invisibile. Allo stesso tempo, è un impegno che rivaluta il concetto di cura di soggetti dimenticati nella zona d’ombra del sistema in cui viviamo, toccando aspetti cruciali della vita reale come il cibo, la cura di anziani e bambini, la partecipazione diretta alla vita e all’intimità della cultura altra.
Gli spazi della cura rappresentano il privato e il pubblico nel lavoro femminile: luoghi del ricordo e della nostalgia, ma anche della corporeità, dei gesti, della chiacchiera, del commento sociale, dell’incontro con la diversità. Favoriscono tuttavia, a parte gli svantaggi economici e legali, il nascosto, la soggezione, l’assenza di riconoscimento, la difficoltà di confrontarsi con l’altra realtà in ruolo subalterno.

C’È una maggiore esposizione a razzismo e sessismo, che non mancano peraltro in altri tipi di lavoro, in fabbrica, in bar o mercati, negli uffici, nella piccola impresa, oltre a quello dell’impegno sindacale, giornalistico, politico e di attivismo sociale, raro ma importante come leva della lotta contro intolleranza e pregiudizio.
Non si può tralasciare il «lavoro sessuale» che, pur sottraendosi a giudizi discriminatori preventivi, nel caso delle immigrate è prevalentemente legato al fenomeno della tratta, nazionale e internazionale, e dello sfruttamento del corpo nero e in genere esotico. Gli archetipi vengono dalla condizione femminile nera nella schiavitù americana, che, nel sistema della piantagione, ha fatto da modello all’organizzazione del lavoro nel capitalismo, mostrando un passato che non passa e riappare nel presente, in Italia come altrove. La linea del colore influenza le condizioni del lavoro migrante ancora oggi e sfocia nel razzismo, oltre che in tristi strumentalizzazioni politiche.

IMPORTANTE è il rapporto con momenti teorici del pensiero e dell’attivismo femminista, da ieri a oggi; da non dimenticare è la storia passata del lavoro delle emigranti italiane, segnata da eventi anche drammatici. Un’area cruciale è quella della migrazione delle giovani intellettuali, ricercatrici, insegnanti che spesso affrontano sradicamento e precarietà, non sempre per scelta, per poter svolgere il lavoro cui si sono preparate in anni di studio.
Infine il lavoro creativo di autrici di origine diversa dalla nostra è espressione importante della letteratura postcoloniale di oggi in molti paesi, inclusa l’Italia dove esiste un’ampia produzione nella nostra lingua che si confronta con un esclusivo canone ufficiale. Si fa strada lo sguardo italiano sulla migrazione, nostra e di altre, e sul colonialismo presente e passato, in un numero crescente di romanzi interessanti. È un lavoro creativo che traduce la migranza, la diversità, il confronto in metafora letteraria o artistica.
Le rappresentazioni dell’alterità si muovono tra realismo e visionarietà, attraversando in modo creativo varie forme di racconto cui il seminario su «Lavoro e migrazione femminile» cercherà di dare concretezza. Il lavoro domestico nero, latino o asiatico trova spazio nella narrativa, in interviste, in film classici e recenti e in serie televisive, nell’arte visuale, nella danza e nelle canzoni.

L’IMMAGINE che ci accompagna a Venezia richiama il lavoro di una migrante, Natalia Goncharova, che, nei primi decenni del secolo scorso, irruppe dalla Russia nativa sulla scena europea con la sua arte tra avanguardia e cultura popolare, tra Oriente e Occidente. La sua Venditrice di arance, alla pari delle raccoglitrici ritratte nei campi, sa esporre la sua merce con perizia senza rinunciare alle vesti sontuose e immaginifiche della tradizione, così offrendo la visione di un lavoro che rifiuta di essere invisibile.

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IL PROGRAMMA DELLE TRE GIORNATE

Dagli anni Sessanta alla contemporaneità: ecco l’arco temporale entro cui la Società italiana delle Letterate si muoverà per esplorare la rappresentazione del lavoro e dei lavori. Precarietà, derive identitarie, capitalismo, corpi sessuati e situati: di questo e molto altro si parlerà a Venezia da venerdì 13 a domenica 15 negli spazi della Wake Forest University. Attraverso la letteratura, la poesia e le arti visive, insieme a Lidia Curti e Cristina Bracchi, ci saranno: Luisa Ricaldone, Francesca Maffioli, Laura Marzi, Sarah Perruccio, Giulia Simi, Laura Marzi, Cristina Giudice, Loredana Magazzeni. Poi Laura Fortini in dialogo con Laura Pugno, Laura Graziano, Maria Grazia Calandrone, Gabriella Musetti, Bianca Tarozzi, Leila Falà, Nadia Agustoni. E ancora Magda Bianco, Linda Laura Sabbadini, Anna Maria Crispino, Annarosa Buttarelli, Monica Luongo e altre. Il programma sul sito www.societadelleletterate.it