La formazione dell’opinione pubblica è materia antica. Su di essa si cimentavano filosofi del calibro di Aristotele, Platone; oppure teorici della politica più recenti, come Niccolò Machiavelli, Thomas Hobbes. Autori differenti eppure accomunati dalla convinzione che uomini e donne siano sempre oggetti «passivi» durante l’esercizio del potere. Toccherà a qualcuno illuminare il buio delle caverne dove vivono. Oppure potranno dare libero sfogo ai loro spiriti animali finché un mostro biblico potrà, attraverso la paura che incute, domarli e sottometterli. Solo il fiorentino Machiavelli scriverà di tumulti e di un principe che dovrà tener conto delle opinioni espresse dalle moltitudini in rivolta per rimanere il sovrano che dà forma alla Repubblica.

IL FILO ROSSO della discussione sull’opinione pubblica è stato tessuto in secoli di discussioni sulla natura del potere, sulle possibilità di trasformarlo. Doveva essere una rivoluzione, quella francese, a far emergere il tema dell’opinione pubblica, della verità che si fa strada tra le opinioni che la società civile confusamente manifesta. E solo con i media e i partiti politici di massa legittimeranno la riflessione sull’opinione pubblica, come ha ricostruito Jürgen Habermas nella sua nota Storia e critica dell’opinione pubblica (Laterza). Il tutto diventa più complicato quando si mette in rapporto la formazione dell’opinione pubblica con i movimenti sociali (e il relativo conflitto politico, di classe, culturale), evidenziando il fatto che ragionare di opinione pubblica nega il pensare la politica e la natura del potere, perché opinione pubblica allude solo a un generico controllo e borbottio di consenso o dissenso sull’operato del sovrano. E vieppiù tema complicato quando la produzione di opinione pubblica è associata a settori economici – i media, l’industria culturale – e a quel medium universale che è la Rete. In questo caso, una riflessione sull’opinione pubblica coinvolge necessariamente anche la caduta verticale del lavoro come collante sociale, il diffondersi della precarietà e l’aumento delle disuguaglianze sociali. Ne è esempio l’affaire Cambridge Analytica, Facebook, Donald Trump, dove la produzione di opinione pubblica passa attraverso la cessione dei propri dati personali alle imprese in cambio della gratuità di alcuni servizi da esse forniti (il business model di Facebook e non solo), la loro elaboraborazione e manipolazione da parte dei data barons. Oppure dei profitti fatti con i Big Data, la polarizzazione sociale tra una minoranza di ricchi e una moltiutudine di poveri (l’immagine del conflitto tra il 99 per cento e l’1 per cento della popolazione fatta propria da molti movimenti sociali tra Stati Uniti, America Latina, alcuni paesi arabi e Europa).

Per tessere allora un filo rosso di critica dell’opinione pubblica vale la pena assumere questa ipotesi di ricerca: la Rete e i social network sono i luoghi, gli spazi comunicativi dove prende forma l’opinione pubblica, relegando i mass-media (televisione, radio e carta stampata) a cross-point secondari del World Wide Web. La rete vede cioè all’opera dei veri e propri produttori di opinioni pubbliche. Nel libro, diventato un classico della teoria dei media, sull’Opinione pubblica e opportunamente ristampato da Donzelli, Walter Lippmann (pp. 315, euro 22) sostiene che le opinioni pubbliche sfuggono alla polarità verità e falsità perché corrispondono alle immagini che i singoli si costruiscono non per comprendere il mondo ma per adeguarsi a esso così come è. Da qui la centralità degli stereotipi nella formazione delle opinioni pubbliche e dei dispositivi tesi alla loro sintesi.

LIPPMANN scrive il testo dopo la fine della prima guerra mondiale. Ha un recente passato come simpatizzante socialista, esperienza che qualificherà come un errore di gioventù. Ha maturato la convinzione che la democrazia si basa su una affascinante finzione (il potere del popolo), ma che è destinata a trasformarsi in oligarchia, come già sostenuto da Aristotele, filosofo che in questo libro è sbeffeggiato per la sua legittimazione della schiavitù attraverso l’uso propagandistico di uno stereotipo: la predisposizione naturale a essere schiavi. Quando prende forma il libro di Lippmann, la radio non è ancora usata come tecnologia della comunicazione per unificare la nazione americana (per questo bisognerà attendere la presidenza di Theodore Roosevelt) e la televisione è tutt’al più materia per romanzetti di fantascienza. Eppure il testo è interessante, a quasi cento anni dalla sua pubblicazione, per un altro aspetto: l’opinione pubblica è il prodotto di un’operazione di elaborazione e manipolazione delle immagini sulla realtà che i singoli usano per un processo di adattamento al proprio ambiente, dato che si riferiscono, nella società di massa, a fatti accaduti a distanza dall’abitazione, dal lavoro, dal quartiere dove vivono. Nella produzione di opinione pubblica opera sempre un doppio movimento: quel rispecchiamento delle convinzioni personali e la loro manipolazione.

NON PECCA di economicismo chi sostiene la natura economica della fabbrica del consenso. D’altronde è stato il già citato Jürgen Habermas a sostenere come la produzione di opinione pubblica sia diventato un settore economico a tutti gli effetti, perché i mass-media sono imprese che rispondono a criteri mercantili tesi a produrre profitti. Il discorso si articola e trova la sua «maturità» con la Rete, proprio perché i social network e i social media, ma anche altre piattaforme digitali come Amazon o Google, basano la loro attività economica sulla elaborazione e manipolazione delle immagini, degli stereotipi, dei sentimenti, del chiacchiericcio che avvengono o sono condivisi attraverso la Rete.
Qui la produzione di opinione pubblica è mediata dagli algoritmi, cioè da procedure e automatismi che non prevedono mediazione umana. Al di là del rischio di un determinismo tecnologico, il tema degli algoritmi è rilevante per quanto riguarda la definizione e l’attivazione dei dispositivi di manipolazione fondati su un patto implicito tra la gratuità dei social network e la cessione della proprietà dei propri dati personali alle imprese che li gestiscono. È il mondo esplorato da Michele Mezza nel volume Algoritmi di libertà (Donzelli, pp. 275, euro 18. Ne ha già scritto Vincenzo Vita su il manifesto il 28/ 03/ 2018), che si sofferma con un capitolo sul rapporto tra movimenti sociali, produzione di opinione pubblica e potere delle imprese. Il rapporto sta nella trasformazione, da parte delle imprese, della comunicazione in dati da impacchettare e vendere.

IN QUESTO CASO l’automatismo indotto dagli algoritmi tende sempre a riprodurre le immagini, gli stereotipi, le opinioni pubbliche dominanti, anche se la comunicazione è alimenta da movimenti di contestazione, di indignazione o di speranza, come definisce i movimenti sociali contemporanei Manuel Castells. Questo non significa che il dissenso, o il «ribellismo molecolare», siano tacitati. Anzi, servono a rendere flessibile e fonte di innovazione sociale le dinamiche comunicative dentro e fuori la Rete, attraverso una balcanizzazione delle comunicazione on line secondo logiche da affinità collettive. Dentro i social network non c’è spazio, infatti, per un’unica opinione pubblica, bensì per la pluralità di essa. Le comunità dei simili presenti e riprodotte nella Rete colpisce al cuore la tecno-utopia che vedeva nel cyberspazio una frontiere di libertà radicale per una comunità globale. Nei social network si comunica con chi la pensa allo stesso modo, rinforzando così punti di vista predefiniti. È cioè il trionfo di quegli stereotipi e delle immagini del mondo che ci aspettiamo di conoscere invece del mondo così come è. La costruzione di un punto di vista dominante sta nell’imporre uno stile enunciativo (il politicamente corretto), delle compatibilità da rispettare, dei limiti da non superare. Sempre tuttavia in un meccanismo produttivo. Ovvio, quindi, che la Rete riproduca e amplifichi le diseguaglianze sociali.

LA FIGURA dominante nella produzione di opinioni pubbliche è, secondo Massimo Caggi, l’Homo premium (Laterza, pp. 159, euro 15), cioè di chi dispone delle risorse monetarie e tecnologiche per salvaguardare spazi di autonomia, libertà dai dispositivi di manipolazione e colonizzazione della vita privata. Ma non siamo di fronte a un panopticon bensì a una società del controllo che fa leva sul doppio movimento di autonomia individuale (e collettiva) e governance della società, svelando cioè che la produzione di opinione pubblica risponda ormai solo a una logica manageriale. Che tutto ciò sia diventato settore produttivo non è una novità; che ci sia possibilità di resistenza e di exit dalla società di controllo è tuttavia auspicabile. La strada non è tanto disconnettersi dalla Rete, bensì agire un conflitto che pone al centro del suo dispiegarsi tanto le pratiche di autonomia individuale e collettivo quanto l’«alleanza» con chi lavora e dunque è sfruttato negli atelier della opinione pubblica. Questa è dunque la posta in gioco, dentro e fuori la Rete. Dentro e contro gli atelier della produzione di senso per poter pensare una politica della libertà.